dal nostro inviatoFulvio Fiano
Satnam Singh era in Italia da tre anni, con la moglie Sony. La famiglia che lo ospitava: «Coltivava gli ortaggi e ce li regalava». Lavorava per 4 euro l’ora sognando una vita migliore
Borgo Bainsizza (Latina) – Satnam Singh si svegliava tutte le mattine all’alba, usciva di casa alle 6,30, percorreva 8 chilometri in bici verso le serre della famiglia Lovato e, nel tragitto tutto uguale di salici e oleandri delle campagne pontine, attraversava anche via della Speranza. Anche se difficilmente aveva contezza di questa toponomastica, non è difficile immaginare quale attinenza ci fosse con i sentimenti che lo muovevano alla sua fatica quotidiana, che lo riportava a casa solo a sera: fino a un anno fa Satnam viveva in una stalla di bufale, letteralmente, assieme a sua moglie Sony, che lavorava con lui. E avere un tetto vero, una pur misera e illegale paga da 4 euro l’ora per spaccarsi la schiena, era per lui una speranza. Di un progresso nella sua condizione di nullatenente, di miglioramento verso un futuro da non invisibile, di coronamento del sogno di avere i documenti in regola e poter mettere al mondo dei figli a cui offrire garanzie. È morto di questo, Satnam, di ricattabilità, di mancanza di diritti, di disprezzo verso di lui del suo sfruttatore, che quando l’ha visto senza un braccio ha pensato solo a disfarsene come una cosa che ormai non serve, anziché salvarlo. L’ospedale più vicino, il Santa Maria Goretti, dista solo due chilometri in più.
«Aspettavano i documenti per fare un figlio»
«Era un ragazzo come me», dice Ilario Pepe, 30 anni, saldatore, che ospitava Satnam e Sony in via Genova, una strada di buche e villini non tutti rifiniti. «Uscivamo di casa assieme ma lui tornava molto più tardi». Satnam sapeva farsi voler bene. «Se c’era un gioco di mia figlia a terra, si chinava lui per non farmi abbassare — dice Noemi Grifo, 26 anni, moglie di Ilario e incinta —. Coltivava pomodori e zucchine dietro casa e ce le portava a tavola. Anche la sera prima che è morto». Noemi ha due anni più di Sony, si affaccia per dare aggiornamenti e proteggerla: «Ancora ieri ripeteva “mio marito è vivo”, è terribile». Lei è chiusa in casa, ha un malore, a metà mattina arriva un’ambulanza. I due ragazzi indiani sono di etnia Sikh, originari del Punjab, e sarebbero arrivati in Italia tre anni fa su una tratta difficile da ricostruire.
«Non è questo l’importante», dice Amarjit Singh, che col suo alimentari e money transfer di fronte alla parrocchia di San Francesco d’Assisi è un riferimento per la comunità indiana locale. «Lui era come un santo, religiosissimo, non beveva, non fumava, sempre sorridente». Era stata proprio questa rete di solidarietà a portare la coppia dalla Campania a Latina, pochi chilometri più a nord ma mezzo gradino avanti nella riconoscibilità sociale. «Un amico indiano mi ha chiesto se potevo ospitarlo, gli ho detto sì. Mio padre era emigrante in Svizzera, dormiva nelle cabine telefoniche, so che cosa vuol dire accoglienza», dice Ilario. Giura che non prendeva affitto da loro, i citofoni sono sbiaditi, sulla cassetta delle lettere ci sono adesivi con i nomi, non quello di Satnam ma quello di un altro indiano che forse ha vissuto qui.
Senza diritti
Marco Omizzolo, sociologo dell’Eurispes che studia da anni la comunità indiana dell’agro pontino (tra 25 e 30mila persone, regolari e non) spiega che in casi analoghi c’è un contributo spese minimo, ma che l’ospitalità c’è ed è sincera. «Nel 2009 la paga media nei campi era 50 centesimi l’ora, con gli scioperi del 2016 si è arrivati a 6, oggi i 4 euro di Satnam sono realistici».
La sua speranza di diventare regolare, però, non era così scontata visto che lavorava in nero. Inoltre i Sikh non sono riconosciuti come minoranza perseguitata e quindi ottenere lo status di rifugiato è difficile. Oggi Sony non potrebbe neanche costituirsi parte civile al processo per la morte di suo marito, che nei giorni scorsi aveva piantato i cocomeri, attendendo che maturassero come la sua vita difficile. Non farà in tempo ad offrirne i frutti.
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