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Nota a Trib. Bologna, Sez. III, 2 ottobre 2020.

di Antonio Zurlo

 

 

 

 

 

Breve descrizione delle circostanze fattuali.

Con ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c., una società a responsabilità limitata chiedeva, in via principale, inaudita altera parte, e, in subordine, previa istaurazione del contraddittorio, di ordinare all’Istituto di credito resistente la disposizione delle moratorie previste dalla normativa emergenziale, nonché di effettuare la rinegoziazione dei crediti vantati.

Deduceva di avere in essere con la Banca alcune linee di credito e il contratto di mutuo chirografario, le cui obbligazioni venivano adempiute regolarmente fino all’inizio del lockdown, allorquando – a causa delle difficoltà economiche per mancato reperimento di sufficiente liquidità, chiedeva la concessione della c.d. “moratoria” dei pagamenti, sì come prevista dall’art. 56, D.L. n. 18/2020 e, successivamente, la rinegoziazione del debito complessivo, in applicazione dell’art. 13, D.L. 23/2020. Riteneva, difatti, sussistenti il fumus boni iuris e il periculum in mora (rinvenibile nell’aggravamento delle difficoltà economiche causato dalla mancata applicazione delle misure di sostegno).

Rilevando l’insussistenza dei presupposti per l’emissione di un decreto inaudita altera parte, il giudice fissava, con decreto, l’udienza di discussione del ricorso.

Si costituiva l’Istituto, chiedendo il rigetto del ricorso e, segnatamente, contestandone la sussistenza dei requisiti. Con riferimento alla richiesta di moratoria, la Banca rilevava la mancanza dei requisiti soggettivi per accedere alla misura di sostegno invocata da parte ricorrente, di cui all’art. 56, quarto comma, D.L. n. 18/2020, stante l’inserimento della società nella categoria dei crediti deteriorati (e, più nello specifico, nella sottoclasse delle inadempienze probabili, a seguito di delibera assunta prima della richiesta di moratoria e riferibile a una serie di esposizioni debitorie di importo cospicuo). Relativamente alla rinegoziazione, invece, faceva presente che non vi fosse un obbligo per le banche e gli intermediari finanziari di rinegoziare il credito, e che, inammissibilmente, la pronuncia richiesta sarebbe andata a impingere nelle determinazioni discrezionali dell’Istituto e nelle valutazioni di merito creditizio alla stessa spettanti.

All’udienza di discussione, le parti insistevano per le rispettive istanze; parte ricorrente produceva due comunicazioni, di due altri Istituti di credito con cui intratteneva rapporti di finanziamento, che le accordavano la sospensione del rimborso rateale dei finanziamenti in virtù del summenzionato art. 56. Parte resistente, per contro, produceva la comunicazione di Banca d’Italia, per cui un intermediario partecipante alla Centrale dei Rischi aveva classificato la società ricorrente “a sofferenza”.

 

La decisione del Tribunale.

Il Tribunale bolognese osserva che il ricorso debba essere rigettato per insussistenza dei requisiti cautelari.

Sul fumus boni iuris.

L’art. 56. D.L. n. 18/2020, convertito nella l. n. 27/2020, ha introdotto misure di sostegno finanziario alle micro, piccole e medie imprese colpite dall’epidemia da Covid-19, permettendo a queste ultime di avvalersi, dietro comunicazione, di una serie di benefici nei confronti di Istituti finanziari dietro autocertificazione di aver subito in via temporanea carenze di liquidità, quale conseguenza diretta della diffusione della pandemia.

Il quarto comma prevede anche un requisito negativo: per accedere ai benefici, l’impresa richiedente non deve avere esposizioni debitorie classificate come “creditizie deteriorate”, ai sensi della disciplina applicabile agli intermediari.

Tale requisito è oggettivo e, pertanto, insuperabile, come indirettamente dimostrato anche da una delle due comunicazioni di altro Istituto prodotta dalla ricorrente, lì dove la Banca, dopo aver dichiarato di accordare la moratoria, precisava al richiedente che “sarà mia cura aggiornarla in merito alle segnalazioni della cennata cliente nella Centrale dei Rischi della Banca d’Italia”.

Come correttamente rilevato da parte resistente, secondo la normativa di settore costituita dalla Circolare di Banca d’Italia n. 139/1991 e dalla Circolare ABI n. 272/2008, la categoria dei crediti deteriorati è divisa in tre sottoclassi, che si distinguono per il differente grado di deterioramento: a) le sofferenze, in cui va ricondotto il complesso delle esposizioni creditizie nei confronti di un soggetto in stato di insolvenza (anche non accertato giudizialmente) o in situazioni sostanzialmente a questo equiparabili; b) le inadempienze probabili (cc.dd. “unlikely to pay”), ossia linee di credito per le quali l’intermediario reputi improbabile che il debitore adempia integralmente alle proprie obbligazioni, secondo una valutazione di merito creditizio indipendente dalla presenza di eventuali importi (o rate) scaduti e non pagati; c) gli inadempimenti persistenti, ossia i crediti scaduti o sconfinanti in via continuativa da oltre 90 giorni.

Nel caso di specie, per quanto la società abbia dedotto di aver sempre onorato le obbligazioni nascenti dai rapporti contrattuali con l’Istituto, è pur vero che la sua posizione creditizia fosse già stata qualificata, da parte resistente, sulla scorta degli indicatori comunemente e legittimamente valutati dagli Istituti di credito, come deteriorata, ben prima del diffondersi dell’emergenza epidemiologica, dalla quale è originata una crisi economico – finanziaria mondiale e la consequenziale necessità di una disciplina emergenziale invocata a sostegno delle imprese.

La valutazione della Banca si è fondata, in particolare, su fatti di inadempimento precedenti all’emergenza sanitaria, in particolare sulla notifica di un pignoramento presso terzi per un debito di oltre € 450.000,00 nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, e sulla comunicazione, proveniente dalla stessa ricorrente, ove quest’ultima ammetteva un debito di oltre un milione nei confronti dell’Erario.

Non può, inoltre, tacersi il mancato riscontro, da parte dell’impresa finanziata, alla richiesta, da parte dell’Istituto, della documentazione necessaria per effettuare una valutazione della situazione societaria. Da siffatte circostanze, la Banca ha correttamente dedotto il difetto di almeno due requisiti per beneficiare delle misure introdotte dal citato art. 56: non solo la società aveva un’elevata esposizione debitoria (stimabile in almeno un milione di euro), ma non vi erano neppure le condizioni per affermare che detta elevata esposizione fosse frutto di temporanea carenza di liquidità dovuta alla diffusione dell’epidemia da Covid-19, essendo l’ingente debito evidentemente maturato già in un momento precedente, tanto che gli atti di escussione coattiva venivano intrapresi dall’Erario agli inizi dell’anno solare 2020.

Con riferimento alla richiesta di negoziazione, si condividono le argomentazioni difensive di parte resistente, per cui l’art. 13. D.L. n. 23/2020, non introduce alcun obbligo per le Banche, bensì prevede delle misure per garantire la continuità delle imprese colpite dall’emergenza. Né, tantomeno, si può interpretare la norma nel senso di attribuirle un significato maggiore del dato testuale, senza sconfinare in un’interpretazione analogica. Difatti, sebbene il nostro ordinamento preveda delle limitazioni alla libertà negoziale, in termini di obbligo di conclusione del contratto, è pur vero che trattasi di norme eccezionali, in quanto tali da interpretare restrittivamente.

In altri termini, nessun obbligo per gli operatori bancari e finanziari destinatari è imposto dalla disposizione de qua, la quale si limita ad affermare che «sono ammissibili alla garanzia del Fondo, per la garanzia diretta nella misura dell’80 per cento e per la riassicurazione nella misura del 90 per cento dell’importo garantito dal Confidi o da altro fondo di garanzia, a condizione che le garanzie da questi rilasciate non superino la percentuale massima di copertura dell’80 per cento, i finanziamenti a fronte di operazioni di rinegoziazione del debito del soggetto beneficiario, purché il nuovo finanziamento preveda l’erogazione al medesimo soggetto beneficiario di credito aggiuntivo in misura pari ad almeno il 10 per cento dell’importo del debito accordato in essere del finanziamento oggetto di rinegoziazione residuando quindi in capo all’istituto una valutazione di convenienza. E d’altra parte, non si può nemmeno imporre a un istituto bancario di concedere diritti che si tradurrebbero in una compromissione della loro sfera economica.».

La norma deve interpretare nel senso che alla Banca non sia stato sottratto il diritto di accettare o meno la rinegoziazione in relazione alla valutazione del merito creditizio, tanto più considerando che tale valutazione sia doppiamente necessaria al fine di garantire non solo gli interessi dello stesso Istituto, ma anche il buon uso del denaro pubblico (di cui la predetta disposizione consente l’utilizzo e la destinazione, secondo apprezzamento squisitamente fondato sull’affidabilità e solidità dell’operatore economico).

La resistente non ha, quindi, rifiutato illegittimamente le richieste avanzate dalla società, bensì ha agito secondo suo diritto, insindacabile in questa sede, anche in considerazione del fatto che, anche nel caso in cui si prescinda dalla rilevante e preoccupante esposizione debitoria della ricorrente, non abbia potuto valutare la richiesta di rinegoziazione per il mancato tempestivo invio della documentazione richiesta, indispensabile per poter ponderare la solidità patrimoniale della debitrice (che versava, come rappresentato, già prima dell’insorgere dell’emergenza epidemiologica, in una situazione di grave carenza di liquidità, al punto da costringere l’amministrazione a procedere al recupero coattivo dei propri crediti).

Tale valutazione (di “non solidità”) è, peraltro, ulteriormente confermata dalle nuove segnalazioni a sofferenza nel frattempo intervenute, di cui parte resistente ha dato riscontro documentale in sede di comparizione.

Sul periculum in mora.

Le considerazioni che precedono in ordine alla mancanza di fumus boni iuris rendono superflua ogni indagine relativa al periculum in mora, dovendo ambedue i requisiti sussistere simultaneamente per l’eventuale accoglimento dell’istanza cautelare.

È, in ogni caso, opportuno rilevare che, nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie, la valutazione dell’imminente danno non possa essere circoscritta alla sola diminuzione patrimoniale, ma, per converso, il ricorrente deve comprovare che, dal prolungarsi della situazione fattuale in cui si venga a trovare, possa subire un pregiudizio grave e irreparabile (come, a titolo esemplificativo, la dichiarazione di fallimento) causalmente collegata agli adempimenti oggetto di cautelare.

Nel caso di specie, la ricorrente non ha dimostrato né l’aggravio della posizione debitoria personale, né, parimenti, che il suo protrarsi sia stato causalmente collegato alla mancata concessione della moratoria o alla mancata rinegoziazione; contrariamente, dall’istruttoria è emerso che lo stato di crisi economica fosse ben precedente rispetto l’emergenza sanitaria e collegato principalmente a debiti nei confronti dell’erario. Inoltre, il coronavirus ha investito pressoché tutti i rapporti contrattuali: in assenza di un grave pregiudizio subìto nella specifica vicenda contrattuale, tale da distinguere la sua posizione nel quadro più generale, il mero evento del covid-19 non possa in re ipsa costituire un pregiudizio imminente e irreparabile (periculum) idoneo a radicare la tutela cautelare, ex art. 700 c.p.c.[1].

In conclusione, il ricorso deve esser rigettato.

 

 

 

Qui l’ordinanza.


[1] Cfr. Trib. Lucca, 6 luglio 2020.


 

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