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“Intesa Sanpaolo può essere definita la banca fossile numero uno in Italia”. Il giudizio dell’associazione ReCommon e Greenpeace Italia è secco ma documentato e deriva da un’attenta analisi dei prestiti e degli investimenti del primo gruppo bancario italiano. Il report “Intesa Sanpaolo contro il clima, l’ambiente e le comunità”, pubblicato il 27 aprile a ridosso dell’assemblea degli azionisti, ne raccoglie i risultati, frutto della ricerca finanziaria realizzata dalla società specializzata olandese Profundo. È un viaggio “nero” tra carbone, petrolio e gas, che spazia dal Mozambico all’Artico, e che tocca “società che stanno sabotando l’Accordo di Parigi”.

Due numeri aiutano a capire meglio. Nel solo 2020 Intesa Sanpaolo avrebbe concesso 2,7 miliardi di euro di finanziamenti all’industria fossile (tra prestiti e sottoscrizione di azioni e bond). Stessa cifra alla voce investimenti (azioni e bond).

Fonte: “Intesa Sanpaolo contro il clima, l’ambiente e le comunità”, ReCommon – Greenpeace Italia, 2021

È la cornice del “business as usual” che contraddistingue la grande finanza privata globale. Da quando è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima, di fatto nel 2016, il sostegno al carbone non ha perso slancio e le principali banche mondiali hanno stanziato 3.800 miliardi di dollari a favore di gas e petrolio. Intesa Sanpaolo, ricordano i curatori del report, nel periodo 2016-2020 ha posto 13,7 miliardi di dollari sull’industria fossile. Principali beneficiari: Eni, Exxon, Novatek, Equinor, Cheniere Energy, Kinder Morgan.

“Ogni dollaro concesso o investito oggi nell’industria fossile -si legge nel report- rappresenta l’ennesimo ostacolo al contenimento del riscaldamento globale, nonché a una transizione che sia giusta e incentrata sui reali bisogni delle persone: alimentando la crisi climatica in corso, la finanza globale di fatto rischia di favorire con le sue operazioni l’insorgere di pandemie e altre, catastrofiche, crisi”.

ReCommon e Greenpeace Italia partono proprio dal carbone, il combustibile fossile più inquinante da cui occorre sganciarsi (per il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres si tratta non a caso di una “dipendenza mortale”).

In tema di “prestiti al carbone” la banca guidata da Carlo Messina sembrerebbe aver fatto un passo avanti, avendo ridotto l’ammontare del 70% tra 2019 e 2020. “Facili entusiasmi” sostengono però ReCommon con Greenpeace: si tratterebbe “pur sempre di 390 milioni di euro concessi a società carbonifere nel solo 2020”, considerando poi l’assenza di “impegni formali” per i prossimi anni e quindi il rischio di una ripresa.

Alla voce “investimenti” la quota resta invece altissima: 708 milioni di euro nel 2020. Alcuni casi di scuola: la società Fortum/Uniper (finlandese), che tra le altre cose nel maggio 2020 ha reso operativa la centrale a carbone Datteln 4 in Germania. Oppure la società energetica tedesca RWE, la “più inquinante d’Europa” per ReCommon e Greenpeace, con le sue centrali a carbone.

I curatori di “Una banca insostenibile” criticano anche la “policy” di Intesa Sanpaolo sul carbone. Impegni giudicati “deboli”, tardivi, limitati solo ai prestiti e non agli investimenti, caratterizzati da un “doppio standard” tra ricchi Paesi Ocse e quelli “in via di sviluppo”. Da questa separazione deriverebbe ad esempio il finanziamento alla centrale a carbone di Tuzla, in Bosnia ed Erzegovina.

La partita più importante, però, si gioca nel campo “oil&gas”. Il report passa in rassegna società e giacimenti. Come l’indiana ONGC Videsh, coinvolta nel progetto Mozambique LNG (capofila è Total), che si inserisce nella drammatica situazione di Cabo Delgado. Nel 2020 Intesa Sanpaolo l’ha finanziata per 61 milioni di euro.

Poi c’è l’Artico, segnato dalla “corsa” alle risorse naturali del Mare glaciale seguita alla progressiva riduzione della calotta polare. Intesa Sanpaolo nel 2020 ha finanziato o investito in Eni (oltre un miliardo di euro), Equinor (norvegese, 60 milioni), Total (francese, 195 milioni), ConocoPhillips (statunitense, 77 milioni).

Fonte: “Intesa Sanpaolo contro il clima, l’ambiente e le comunità”, ReCommon – Greenpeace Italia, 2021

Anche nell’Artico russo, sull’altra sponda dello Stretto di Bering, è analizzato il ruolo di Intesa Sanpaolo con riferimento agli impianti di liquefazione di gas fossile Yamal LNG e Arctic LNG-2, in pancia alla joint-venture Total e Novatek (russa).

Il primo era già stato “finanziato proprio da Intesa con un’operazione da 750 milioni di euro garantita da SACE”, ricordano ReCommon e Greenpeace Italia. “Stessa sorte spetterà ad Arctic LNG-2”, annotano i curatori del report, che danno per già “arrivato” il supporto finanziario del colosso italiano. Oltre agli istituti di credito russi VEB.RF, Sberbank e Gazprombank, in campo per cinque miliardi di dollari, vi sarebbe infatti una cordata di banche straniere composta da China Development Bank, Bank of Japan for International Cooperation, Intesa Sanpaolo e Raiffeisen Bank International per altri cinque miliardi di dollari. Dall’ufficio stampa della banca, interpellato da Altreconomia, non è giunta smentita o conferma della notizia diffusa da Kommersant.

Dall’Artico ci si sposta nel Permian Basin, al confine tra Stati Uniti e Messico, area di fracking e trivellazione orizzontale. Una “bomba climatica”, spiegano ReCommon e Greenpeace, che ricordano come tra 2020 e 2050 la combustione di tutte le riserve di petrolio e gas possa determinare “l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2“. “In prima fila nella produzione e nel trasporto di petrolio e gas del Permian Basin troviamo colossi quali Chevron (130 milioni di euro circa, ndr), ExxonMobil (140 milioni, ndr) e Kinder Morgan (57 milioni, ndr), società che hanno beneficiato abbondantemente dei soldi di Intesa nel 2020″.

Il gas estratto nel Permian Basin raggiunge poi lo snodo del Golfo del Messico per essere liquefatto e trasportato in Europa dalle navi metaniere. Un settore sensibile per le società fossili Freeport LNG e Cheniere Energy, anch’esse sostenute da Intesa per mezzo di finanziamenti (189 milioni di euro ciascuna).

“Non c’è più tempo per false promesse” o “goffi tentativi di presentarsi come banca attenta al clima”, concludono ReCommon e Greenpeace Italia, che al colosso rivolgono poche richieste chiarissime.

Stop a prestiti e investimenti a beneficio di società che stanno realizzando nuove centrali a carbone e a coloro che non prevedono di uscirne entro il 2030. Portare a zero l’esposizione in tema di carbone entro il 2028. Implementare entro quest’anno una “policy” su petrolio e gas, interrompendo le operazioni a riguardo. L’ultima, strutturale, è quella di costruire un piano di uscita dai combustibili fossili in linea con l’Accordo di Parigi sul clima. Includendo però prestiti, investimenti, gestione di asset per conto di terzi.

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