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Non siamo nel mare di Ustica, lì lo Stato ha dato il peggio di se stesso, in depistaggi ed omissioni. Siamo in uno dei territori più belli della Sicilia, a Castelbuono nelle Madonie, tra boschi, colline, vigneti ed uliveti circondati da montagne che si affacciano su un mare di un azzurro intenso da cui si scrutano le Eolie. Arriviamo attraverso una strada che si inerpica nella tenuta di Abbazia Sant’Anastasia, 400 ettari di bellezza pura. Siamo a casa di Franco Lena, il proprietario di questo gioiello medievale, incastonato in un posto da un fascino sorprendente. In questi vigneti si produce il Litra, un Cabernet Sauvignon che oltre a ricevere più volte l’agognato tre bicchieri al Vinitaly, aveva l’apprezzamento dell’unico uomo di reale bon ton italiano, l’Avvocato Gianni Agnelli.

Ci riceve l’ingegnere Lena ancora convalescente da un ricovero ospedaliero. Il fisico è provato, ma lo sguardo è fiero e combattivo. Al suo fianco la moglie Paola Moriconi, che da decenni si è legata a lui e a questo Paradise Lost. Perduto come nel dramma di Milton, perché Franco Lena ha avuto la disgrazia di aver incontrato lo Stato nelle sue forme peggiori. Quelle che ti prendono una mattina, ti schiaffano in carcere, ti tolgono il progetto di una vita, e poi dopo anni di processi e tre assoluzioni fino alla Cassazione, e dopo una causa risarcitoria per ingiusta detenzione, in cui ti danno degli spiccioli, alla fine ti restituiscono una delle aziende agrituristiche più belle d’Italia in uno stato di dissoluzione. La vicenda Lena avviene nel 2010, quando viene arrestato con altre 19 persone.

L’accusa è grave ed infamante, mafia. I contorni riguardanti la sua posizione sono poco chiari fin dall’inizio, ed una fase istruttoria più approfondita, tra coloro che lo accusarono c’era l’oggi senatore pentastellato Scarpinato, avrebbe forse già scagionato l’uomo, che già caratterialmente poco ha a che fare con la mafia. Tant’è che lui è l’unico assolto del gruppo di coimputati in primo grado. La procura insiste in appello e riperde. La Cassazione nel 2016 rigetta il definitivo e pervicace ricorso. Poi dopo una lunga diatriba, dopo l’allontanamento del primo amministratore giudiziario coinvolto nel caso Saguto, nel 2018, dopo otto anni, gli restituiscono l’azienda.

La Saguto conosceva bene questo posto, ci organizzava riunioni e convegni per il suo entourage, come piedistallo del suo fulgido sistema. Aziende saccheggiate, spolpate, a favore di amici, parenti e consulenti. Le intercettazioni fra la Saguto e Scimeca, l’amministratore giudiziario, sono imbarazzanti. L’azienda che riceve dopo otto anni Franco Lena non è un Paradise Regained, un paradiso riconquistato. L’amministrazione giudiziaria per tutti questi anni non ha mai approvato i bilanci, non pagando i contributi ai lavoratori non è riuscita ad incassare nessun spettante finanziamento regionale, avendo il Durc irregolare. Da 750.000 bottiglie l’anno di vino si è passati ad appena 150.000.

Buona parte dei vigneti, che l’amministrazione giudiziaria non ha tutelato, sono stati distrutti dai suidi che infestano queste contrade. In compenso i dipendenti sono aumentati, non per costruire recinzioni che difendessero uno dei più rinomati vigneti siciliani, dove Cotarella e Tachis, i  maggiori enologi italiani,  avevano profuso scienza ed impegno, ma per avere ruoli dirigenziali ed apicali. La rete di vendita, il portafoglio clienti faticosamente conquistato negli anni perso irrimediabilmente. L’azienda ha smesso di produrre l’olio dei suoi 40 ha di uliveto. Il resort, realizzato ristrutturando un’abbazia del quindicesimo secolo, lasciato senza manutenzione. Tasse e contributi dei dipendenti non versate, e nonostante incassi che sfioravano i due milioni di euro nessun pagamento delle rate di mutuo di Banca Nuova. L’istituto di Zonin, assorbito a zero euro da Banca Intesa, ha ceduto a basse percentuali i propri crediti ad una Finanziaria, la Amco. La quale ora invece vuole l’intero credito, più gli interessi di mora maturati per il mancato versamento delle rate da parte dell’amministrazione giudiziaria della società.

Franco Lena è un fiume in piena, ogni tanto sorretto dai salienti e sapienti ricordi delle singole fattispecie da parte di sua moglie. L’Abbazia da lavoro a 60 dipendenti, lontani dai fasti di 110 dei tempi allegri del sistema Saguto, ed ora costoro rischiano, dopo anni di gestione fallimentare da parte dello Stato, di cadere sotto i colpi delle banche, che dallo Stato sono state aiutate. La probabile fine sarà un concordato o un’asta giudiziaria, in attesa dello speculatore di turno. Ci vorrebbe un’idea forte, da parte di istituzioni o privati illuminati, ma chi si avvicina a recuperare un patrimonio del genere dopo tanta distruzione, fisica, amministrativa e morale?

Tutta la vicenda ha un senso di grottesco e di teatro dell’assurdo, se non ci fossero in gioco la vita di 60 famiglie, e il lavoro di una vita di un cittadino italiano che ha avuto la disgrazia di incontrare lo Stato nella sua forma peggiore. Quella che ti può stritolare senza remore, né senso del diritto, esattamente il contrario del principio del codice civile del buon padre di famiglia. Se questo, lo Stato, è il buon Padre, meglio essere orfani.

 

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