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Il presente contributo affronta il tema degli effetti degli accordi di ristrutturazione dei debiti per i creditori non aderenti e le azioni a tutela degli stessi.


Gli accordi di ristrutturazione sono tradizionalmente caratterizzati dal punto di vista dogmatico da una difficile qualificazione, ponendosi, da un lato, come un istituto marcatamente stragiudiziale, nella quale prevale l’elemento della contrattualità nella formazione degli accordi tra il debitore e i creditori (e tutti gli eventuali ulteriori soggetti coinvolti) e, dall’altro lato, come uno strumento giudiziale di composizione della crisi della società in ragione della necessaria omologazione da parte del Tribunale e del vaglio del giudice sulla capacità del piano e degli accordi di garantire il pagamento integrale dei creditori non aderenti, sebbene al netto della moratoria prevista ex lege per centoventi giorni.

Premesso che già nella vigenza della legge fallimentare, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione aveva sancito la natura di procedura concorsuale degli accordi di ristrutturazione dei debiti [1], con l’entrata in vigore del Codice della Crisi si è definitivamente sancita la sua natura giudiziale, prevedendone la sua trattazione nell’ambito del procedimento unitario (al pari del concordato preventivo e del novello piano di ristrutturazione soggetto a omologazione). In particolare, il CCII, oltre ad aver abbandonato il concetto di procedura concorsuale per adottare il concetto di “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza [2], ha espressamente previsto un unico iter per la presentazione della domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi (art. 40), un unico procedimento per la richiesta di misure protettive e cautelari (artt. 54-55), un unico procedimento di omologazione (art. 48) e un unico procedimento di impugnazione (rectius, reclamo) delle sentenze di omologazione di detti strumenti (art. 51).

A fronte di questi elementi che inevitabilmente accomunano tutti gli strumenti di regolazione della crisi soggetti al procedimento unitario, gli accordi di ristrutturazione dei debiti si caratterizzano, tuttavia, ancora per una serie di peculiarità sia nella loro formazione (marcatamente stragiudiziale), sia nei presupposti necessari alla presentazione della domanda sia negli effetti che essi realizzano nei confronti dei creditori (siano essi aderenti o meno).

In detto contesto e alla luce della loro sempre maggior presenza nelle corti e del loro utilizzo per il perseguimento del risanamento aziendale, risulta doveroso conoscere gli effetti che gli accordi di ristrutturazione comportano in capo a quei soggetti che pur non addivenendo alla conclusione di intese con il debitore si trovino a subirne le conseguenze, anche al fine di conoscere le azioni a tutela degli stessi nell’ambito di queste fattispecie. Detti effetti, che verranno analizzati più diffusamente nei prossimi paragrafi, possono essere raggruppati essenzialmente in tre gruppi: (i) effetti derivanti dall’accesso del debitore al procedimento unitario e dalla richiesta di misure protettive; (ii) effetti derivanti dall’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti da parte del Tribunale; (iii) effetti derivanti dall’estensione degli effetti dell’omologazione ai creditori non aderenti ai sensi dell’art. 61 CCII.

Gli effetti derivanti dalla presentazione del ricorso per l’omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti (e per l’applicazione delle misure protettive)

Un principio generale processuale del diritto della crisi – sebbene non chiaramente espresso da alcuna norma – è che l’iniziativa del debitore di accedere a strumenti di regolazione della crisi è tanto più pubblica quanto è “invasiva” dal punto di vista della lesione dei diritti dei creditori e dei terzi che ne subiscono gli effetti. Proprio per queste ragioni, anche nel caso degli accordi di ristrutturazione la conoscibilità della domanda è strettamente correlata al livello di tutele che l’imprenditore richiede a sostegno della stessa.

Difatti, la mera presentazione della domanda di accesso al giudizio di omologazione di accordi di ristrutturazione da parte del debitore è conoscibile dai creditori non aderenti (che non hanno quindi partecipato ad alcuna trattativa e non sono destinatari degli effetti degli accordi) soltanto in quanto ai sensi dell’art. 40, comma 4, CCII, gli accordi, contestualmente al deposito del ricorso in Tribunale, devono essere pubblicati nel registro delle imprese. Tale circostanza è essenzialmente giustificata dal fatto che la presentazione della domanda, ai sensi dell’art. 40 CCII, non determina nei loro confronti né la sospensione o lo scioglimento dei contratti pendenti né tantomeno alcun effetto inibitorio rispetto alle azioni esecutive e cautelari eventualmente azionabili o pendenti.

L’unico effetto diretto – e tuttavia fondamentale – della presentazione degli accordi di ristrutturazione è che il pagamento dei debiti antecedenti alla presentazione della domanda avverrà soltanto una volta ottenuta l’omologazione beneficiando della moratoria ex lege derivante dall’omologazione degli accordi.

Diverso è il caso in cui il debitore, unitamente alla domanda di cui all’art. 40 CCII, richieda altresì l’applicazione di misure protettive. In questa ipotesi, per tutti i creditori (aderenti e non) si realizzano dalla presentazione della domanda una serie di effetti “restrittivi” dei loro diritti e in particolare delle tutele azionabili in loro favore. In particolare, ai sensi dell’art. 54, comma 2, CCII, (i) i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa; (ii) le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano; (iii) i creditori non possono acquisire diritti di prelazione opponibili alla massa creditoria, salvo che non siano concordati con l’imprenditore (le c.d. “misure protettive tipiche”).

Inoltre, dalla richiesta di misure protettive “tipiche” discendono una serie di effetti legali che non devono essere confermati dal Tribunale ma che sono automatici rispetto alla richiesta – per realizzare pienamente lo scopo di tali misure [3]. Si tratta del fatto che:

  1. la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza non può essere pronunciata;
  2. tutti i creditori non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti in corso di esecuzione o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del deposito delle medesime domande (art. 64, comma 3, CCII); e
  3. i creditori interessati dalle misure protettive (che possono anche essere creditori non aderenti agli accordi) non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti essenziali in corso di esecuzione o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto di non essere stati pagati dal debitore. (art. 64, comma 4, CCII).

Come ormai noto, le misure protettive – al contrario di quanto previsto nella legge fallimentare – non sono più “automatiche”, nel senso che pur avendo efficacia dal momento della loro richiesta devono essere confermate dal giudice secondo le formalità del procedimento di cui all’art. 55 CCII.

In ragione della loro correlazione rispetto alla bontà del progetto di risanamento e in ossequio alle ragioni di celerità tipiche dei procedimenti cautelari, l’art. 55, comma 3, CCII, prevede che, in caso di richiesta delle misure protettivetipiche”, il giudice deve solo assumere “ove necessario, sommarie informazioni. Date le tempistiche “ristrette”, la prassi giurisprudenziale pare essere quella di non procedere alla fissazione di un’udienza e alla convocazione dei creditori, procedendo direttamente alla conferma o alla revoca delle misure protettive entro trenta giorni dal deposito della domanda [4]. Tuttavia, ove ritenuto necessario, nell’ambito dei poteri istruttori officiosi tipici del procedimento cautelare non è escluso che il giudice possa convocare in udienza taluni creditori, ragionevolmente quelli interessati direttamente dalle misure protettive o quelli di maggiore dimensione (come accade nella conferma delle misure protettive nell’ambito della composizione negoziata) [5].

Nel caso in cui, invece, il debitore richieda misure cautelari ai sensi dell’art. 54, comma 1, CCII ovvero misure protettive “atipiche” [6] ai sensi dell’art. 54, comma 2, ultimo periodo, CCII, trattandosi di misure specifiche di cui se ne chiede l’applicazione verso specifici soggetti e non aventi carattere predeterminato, è sempre prevista dall’art. 55, comma 2, CCII, la fissazione di un’udienza per la relativa concessione con l’obbligo per il debitore di notificare il ricorso e il decreto entro otto giorni alle altre parti. Ragionevolmente, le parti nei cui confronti devono essere effettuate le notificazioni saranno individuate nel decreto di fissazione d’udienza, che, per completezza, potrebbe nelle more concedere la misura richiesta inaudito altera parte ferma la necessità della relativa conferma successiva.

Nella prassi, è il debitore che indica i soggetti nei cui confronti ritiene debba essere effettuata la notificazione ferma la possibilità di integrare la “rosa” delle parti, sulla base dei poteri officiosi del giudice [7].

In detto procedimento, al creditore interessato dalle misure protettive (che può anche essere un creditore non aderente agli accordi di ristrutturazione) sono concesse una serie di azioni – soprattutto ex post – volte a tutelare le proprie pretese da comportamenti abusivi o sproporzionati del debitore risultanti dall’ottenimento dei provvedimenti di cui sopra.

Innanzitutto, tutte le ordinanze di cui sopra sono reclamabili ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. che consente un totale riesame della vicenda ai fini della concessione della misura. A fronte delle misure protettive “tipiche”, inoltre, il creditore non solo può intervenire nel procedimento di proroga delle stesse ove ritenga che la proroga arrechi un ingiusto pregiudizio ai diritti e agli interessi delle parti interessate (art. 55, comma 4, CCII), ma può altresì, in caso di atti di frode commessi dal debitore, presentare istanza per la revoca o la modifica delle misure protettive (cfr. art. 55, comma 5, CCII).

Per dovere di completezza, è opportuno precisare che mentre il creditore non aderente può agire nei confronti del debitore per contestare l’opportunità e la proporzionalità delle misure protettive richieste, al contrario, non può agire per impedire al debitore di presentare una domanda di regolazione della crisi secondo uno degli strumenti previsti dal legislatore, potendo soltanto presentare – anche nel corso del procedimento di omologazione degli accordi – una domanda di apertura della liquidazione giudiziale (che sarà trattata soltanto in caso di rigetto dell’omologazione) ovvero presentare opposizione all’omologazione ai sensi dell’art. 48, comma 4, CCII.

Gli effetti derivanti dall’omologazione degli accordi di ristrutturazione per i creditori non aderenti

Come anticipato nei precedenti paragrafi, gli accordi di ristrutturazione sono uno strumento la cui componente negoziale gioca un ruolo fondamentale sia in termini di finalità sia in termini di rilevanza dei benefici correlati all’omologazione degli stessi (in estrema sintesi, l’esenzione dalla revocatoria ordinaria e fallimentare, l’esenzione dalla bancarotta preferenziale e semplice, l’esenzione dalla tassazione delle sopravvenienze attive derivanti dagli stralci).

L’unico effetto derivante dall’omologazione degli accordi nei confronti dei creditori non aderenti è quello che il debitore – per effetto dell’omologa – può beneficiare di una moratoria di centoventi giorni nei confronti di questi soggetti. Difatti, i creditori estranei devono essere pagati entro 120 giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data, ed entro 120 giorni dalla scadenza se i crediti non sono ancora scaduti alla data di omologazione.

Invero, la circostanza che gli accordi di ristrutturazione davvero consentano tali pagamenti rappresenta a tutti gli effetti la ragione determinante per la quale tali accordi richiedono l’accompagnamento di un’attestazione di un professionista indipendente e siano assoggettati a un giudizio di omologazione. Infatti, per riconoscere i benefici derivanti dall’omologa esposti poc’anzi, è necessario – ai sensi dell’art. 57, comma 3, CCII – che gli accordi siano idonei ad assicurare il pagamento integrale dei creditori estranei nei termini di cui sopra. Nello stesso senso, l’attestazione del professionista indipendente deve specificare espressamente l’idoneità degli accordi e del piano ad assicurare il pagamento dei creditori estranei.

Per questo motivo, il giudice chiamato ad omologare gli accordi è tenuto a verificare – oltre alla sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi e alla presenza della documentazione richiesta dalla legge – la fattibilità del piano e l’idoneità degli accordi in sua esecuzione ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei. Allo scopo di sollecitare una verifica su tali condizioni o su alcuni aspetti del piano e degli accordi che rendano inverosimile il pagamento integrale dei creditori non aderenti, l’ordinamento riconosce a tutti i creditori e a qualsiasi altro interessato il diritto di presentare, entro trenta giorni dalla pubblicazione al registro delle imprese, ricorso per l’opposizione all’omologazione.

Là dove vengano risolte le opposizioni e sussistano secondo il Tribunale i presupposti, gli accordi di ristrutturazione verranno omologati con sentenza che, ai sensi dell’art. 48, comma 5, CCII, produce effetto, nei confronti delle parti che hanno preso parte al giudizio di omologazione dalla data di notificazione da parte della cancelleria, mentre nei confronti dei terzi dalla data di pubblicazione al registro delle imprese.

Contro la sentenza di omologazione è possibile proporre reclamo depositando il ricorso presso la cancelleria della Corte d’Appello entro trenta giorni ai sensi dell’art. 51 CCII. Tuttavia, i creditori (aderenti e non) potranno presentare reclamo soltanto ove siano state già parti del giudizio di omologazione [8]. Pertanto, l’opposizione all’omologazione costituisce presupposto fondamentale per procedere alla presentazione del reclamo successivamente. In sede di reclamo, la parte può presentare istanza per chiedere l’inibitoria in tutto o in parte o in modo temporaneo dell’attuazione del piano e dei pagamenti, dimostrando l’eventuale pregiudizio derivante dall’esecuzione degli accordi (periculum in mora) e la fondatezza delle proprie pretese (fumus boni iuris).

Se il reclamo è consentito soltanto a coloro che avevano presentato opposizione in sede di omologa, è invece consentito a qualunque interessato – quindi anche al creditore non aderente che non ha presentato opposizione – intervenire nel procedimento di reclamo ove sia titolare di un interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c.. L’intervento del terzo, in ogni caso, deve avvenire comunque non oltre dieci giorni prima dell’udienza.

Gli effetti degli accordi di ristrutturazione ai creditori non aderenti “estesi”: prove di concorsualità

Se, come detto sinora, quantomeno nella loro formazione gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono strumenti caratterizzati dalla forte negozialità – e quindi nessuno senza il proprio consenso può essere assoggettato ai termini di quegli accordi – con il d.l. 118/2021, prima, e il Codice della Crisi, poi, ne è stata introdotta una declinazione che si caratterizza proprio per il consentire, a determinate condizioni, di estendere gli effetti degli accordi di ristrutturazione anche a quei creditori che non hanno aderito alle intese ma che appartengano alla stessa categoria di coloro che hanno invece accettato la proposta presentata dal debitore.

La facoltà di utilizzare tale potere di estensione all’interno degli accordi di ristrutturazione dei debiti – introdotto per potenziare la via stragiudiziale di risoluzione della crisi, evitando che l’ostruzionismo di alcuni creditori comprometta gli accordi tra il debitore e la maggioranza degli stessi – avvicina ancora di più l’istituto a quelli, classicamente di natura concorsuale, che vedono nella soggezione del creditore di minoranza al volere espresso dalla maggioranza, la loro più nota caratteristica.

Difatti, con gli accordi di ristrutturazione “ad efficacia estesa” disciplinati dall’art. 61 CCII, è possibile estendere gli effetti dell’accordo di cui si chiede l’omologazione anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria, individuata tenuto conto dell’omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici, a condizione che:

  1. tutti i creditori appartenenti alla categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative, siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull’accordo e sui suoi effetti;
  2. l’accordo abbia carattere non liquidatorio, prevedendo la prosecuzione dell’attività d’impresa in via diretta o indiretta;
  3. i crediti dei creditori aderenti appartenenti alla categoria rappresentino il settantacinque per cento di tutti i creditori appartenenti alla categoria (sessanta per cento in caso di presentazione all’esito della composizione negoziata), fermo restando che un creditore può essere titolare di crediti inseriti in più di una categoria;
  4. i creditori della medesima categoria non aderenti cui vengono estesi gli effetti dell’accordo possano risultare soddisfatti in base all’accordo stesso in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale;
  5. il debitore abbia notificato l’accordo, la domanda di omologazione e i documenti allegati ai creditori nei confronti dei quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo;
  6. in nessun caso, per effetto dell’accordo di ristrutturazione, ai creditori ai quali è stato esteso l’accordo possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti.

Quanto al concetto di categoria “omogenea” tenuto conto della posizione giuridica e dell’interesse economico deve condividersi quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui per posizioni giuridiche devono intendersi gli elementi che riguardano la natura del credito, le sue qualità intrinseche, il carattere chirografario o privilegiato, l’eventuale esistenza di contestazioni, ovvero la presenza o meno di garanzie prestate da terzi o di un titolo esecutivo mentre per interessi economici si debba fare riferimento alla fonte e alla tipologia socio-economica del credito ovvero al peculiare tornaconto vantato dal suo titolare [9].

Al netto di questa definizione di carattere generale, è doveroso precisare che il giudizio sull’omogeneità dei creditori è inevitabilmente da effettuare sulla popolazione creditoria della singola impresa nei confronti dei quali si chiede l’applicazione dell’istituto.

In concreto, fermi i criteri succitati, è opportuno che la valutazione venga effettuato sulla base di una regola di “buon senso” per la quale, all’interno della categoria formulata dal debitore, tutti i creditori sono da ritenersi omogenei quando, individuato l’interesse economico e/o la posizione giuridica che li accomuna:

  1. non ve ne sia all’interno della categoria, uno il cui inserimento appare più “forzato” rispetto a quello degli altri creditori facenti parte della stessa categoria, in quanto lascia presumere una volontà “abusiva” di estendere gli effetti dell’accordo a un soggetto che invece non ha elementi in comune con gli altri;
  2. quando al di fuori della categoria restano soltanto creditori diversi che siano prima facie titolari di posizioni che richiedono un trattamento differente, pur avendo con i creditori appartenenti alla stessa una posizione giuridica e/o interesse economico in comune.

Ad esempio, poniamo che vi sia una categoria composta da istituti di credito che hanno concesso linee di credito (anche aventi forma tecnica diversa fra loro) per diverse operazioni e sono tutte titolari di un credito privilegiato. Tale categoria così formata potrà ritenersi “omogenea” non solo in quanto formata da tutti crediti privilegiati aventi natura bancaria (vd. lett. a)) ma anche perché gli altri crediti privilegiati estranei alla categoria sono di natura completamente diversa (es. lavoratori, erario) ed è ragionevole che vengano trattati diversamente (vd. lett. b)).

Altro aspetto rilevante sul quale soffermarci è quello relativo al dovere di informazione di tutti i creditori appartenenti alla categoria al fine di ottenere l’estensione. In tal senso, si ritiene necessario che tutti i creditori non solo siano stati coinvolti inizialmente nelle trattative ma altresì che siano stati informati nel corso delle trattative dei suoi sviluppi. È bene rappresentare che un creditore potrà dirsi correttamente informato anche se soltanto in un secondo momento sono state avviate le trattative con lui mentre con altri erano iniziate prima a condizione che sia poi stato messo nelle stesse condizioni di informazione e di valutazione di tutti gli altri creditori appartenenti alla categoria. Ciò anche in ragione del fatto che altrimenti un’impresa prima di avviare le trattative dovrebbe definire una strategia di risanamento e poi contattare tutti i creditori nello stesso momento, il che è da un punto di vista pratico quantomeno lontano dal reale svolgimento di queste negoziazioni.

Anzi proprio da un punto di vista pratico, è altresì frequente che venga nominato un soggetto agente o mandatario che svolga le trattative per conto di una pluralità di creditori, spesso caratterizzati ex ante per la loro omogeneità. Sul punto, la giurisprudenza ritiene che il dovere d’informazione sia rispettato anche quando le informazioni vengano rese solo al soggetto che agisce in rappresentanza del ceto creditorio, non risultando necessario che vi sia una interlocuzione diretta con i rappresentanti dei creditori a condizione che questi abbiano espressamente delegato un soggetto a svolgerle (è il caso, ad esempio, del legale incaricato di assistere il ceto bancario nelle trattative tra impresa in crisi e pool bancario) [10].

In ogni caso, rispettando tutti i requisiti previsti dall’art. 61 CCII, è consentito al debitore estendere gli effetti degli accordi altresì a coloro che invece potenzialmente erano contrari al loro contenuto. In ragione della manifesta (ed espressa) deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile derivante dall’applicazione di questo istituto – estendendo l’efficacia dell’accordo anche a coloro che non sono parti dello stesso – l’ordinamento prevede per i creditori non aderenti una serie di tutele maggiori rispetto a quelle previste in generale in materia di omologazione degli accordi di ristrutturazione affinché possano validamente tutelarsi a fronte di potenziali abusive richieste di estensione degli accordi nei loro confronti.

A tal fine, innanzitutto, l’art. 61, comma 2, lett. e), CCII, prevede che il debitore debba notificare l’accordo, la domanda di omologazione e i documenti allegati a tutti i creditori nei confronti dei quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo (quindi, non basta come nel caso “ordinario” la mera pubblicazione a registro delle imprese). Soltanto dalla data della notificazione, poi, decorre il termine di trenta giorni per far valere la sua opposizione all’omologazione in cui potrà far valere sia ragioni per chiedere il rigetto dell’omologa (ove non sussistano i presupposti di cui all’art. 57 CCII) sia per chiedere soltanto il rigetto dell’estensione dell’omologazione.

In quest’ultimo caso, l’accordo di ristrutturazione potrà comunque essere omologato ma – se in violazione di una delle condizioni di cui all’art. 61 quali la disomogeneità della categoria o la mancata informazione del creditore – l’accordo non potrà produrre effetti nei confronti di quel creditore non aderente. Chiaramente, ciò a condizione che sia tuttavia risultante dal piano e dall’attestazione del professionista indipendente che, anche senza l’estensione degli effetti dell’accordo, è possibile per il debitore risanare la propria esposizione debitoria e pagare – ferma la moratoria di centoventi giorni – integralmente tutti i creditori non aderenti ivi incluso quello di cui si chiedeva originariamente l’estensione.

Ciò in quanto altrimenti l’effetto estensivo costituirebbe una condizione concretamente inscindibile dell’accordo, un elemento, cioè, essenziale, in assenza del quale l’accordo stesso non avrebbe avuto, per la società istante, in un’ottica di risanamento, una sua giuridica ed economica ragion d’essere. Pertanto, nel caso in cui l’accordo non consenta il pagamento integrale di tutti i creditori non aderenti in assenza dell’estensione allora l’accordo non dovrà essere omologato perché non rispetta i requisiti necessari ai sensi dell’art. 57 CCII. Specularmente, deve ritenersi inammissibile un reclamo nei confronti di un accordo di ristrutturazione a efficacia estesa omologato che abbia ad oggetto soltanto l’estensione dello stesso nei confronti dei creditori non aderenti quando era stata già presentata dagli stessi opposizione all’omologa sullo stesso tema, in quanto:

  • l’accordo di ristrutturazione con effetto estensivo ex 61 CCII non costituisce un’autonoma fattispecie o un autonomo meccanismo di composizione negoziata della crisi d’impresa, bensì una variante, priva per ciò di autonomia propria, della più generale figura dell’accordo c.d. ordinario previsto dall’art. 57 CCII quindi tale circostanza dell’accordo può essere contestata soltanto fino a quando l’accordo di ristrutturazione non sia stato reso definitivo;
  • non essendo stata presentata opposizione all’omologazione dell’accordo in sé, sull’omologa si è formato giudicato interno e quindi non potrebbe essere accolto un reclamo che avrebbe l’effetto di impattare, direttamente o indirettamente, con i presupposti e le condizioni di validità e di efficacia del non impugnato accordo ordinario [11].

Conclusioni

L’impostazione adottata dal Codice della Crisi rispetto agli accordi di ristrutturazione dei debiti è manifestamente a favore di un suo sempre maggiore utilizzo. Proprio in ragione delle grandi opportunità riconosciute al debitore nell’applicazione di questo istituto, nel periodo antecedente all’entrata in vigore del CCII, taluni sostenevano che il nuovo impianto normativo avrebbe portato al “tramonto” del concordato preventivo – che invece dovrebbe essere lo strumento principe del CCII – in favore proprio degli accordi, soprattutto alla luce della possibilità di estenderne gli effetti a tutti i creditori [12].

Sebbene il CCII sia in vigore da solo due anni, è ancora presto per dare un giudizio sull’effettivo declino del concordato preventivo. Tuttavia, è indubbio che gli accordi ex art. 57 CCII (e la composizione negoziata della crisi) rappresentino oggi il primo istituto cui un’impresa in crisi fa riferimento per cercare di risolvere la propria situazione debitoria potendo giovare essenzialmente delle medesime tutele di un concordato preventivo (misure protettive, nuova finanza, esenzioni da revocatoria e bancarotta preferenziale) ma di minori vincoli sia in termini procedurali – basti pensare alla complessità della disciplina del voto e dell’omologazione – sia in termini di vigilanza che sono invece previsti nel concordato.

In detto contesto, il creditore non aderente a un accordo di ristrutturazione si trova oggi nella potenziale condizione di subire gli effetti della “concorsualità” di tale strumento pur potendo non avere alcun ruolo attivo nel percorso di risanamento del proprio debitore e potendo soltanto ex post contestare le scelte e l’impostazione del progetto di risanamento che, nel frattempo, è stato avviato dallo stesso.

Tale impostazione – vista in un quadro più sistematico – è coerente con la nuova concezione della gestione della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Difatti, se in passato tale fenomeno era considerato un fatto di natura pubblicistica che richiedeva il coinvolgimento del Tribunale e forme più o meno ampie di spossessamento dell’imprenditore (che andava “punito” per essere giunto in quella condizione) si è passati oggi a una gestione della crisi come evento marcatamente privatistico dove addirittura è lo stesso debitore che si rivolge al Tribunale soltanto quando ha bisogno di ottenere particolari istanze (è di per sé la logica dell’omologazione degli accordi, ma si pensi altresì al nuovo procedimento per la conferma delle misure protettive). In detto contesto, al creditore – in specie quello non aderente – resta soltanto la possibilità di adire il Tribunale, nelle ipotesi esposte nelle precedenti pagine, quando ritiene che sia necessario il suo intervento di verifica e di controllo e quando ritiene che l’azione del debitore stia pregiudicando i suoi interessi in modo abusivo o illegittimo. In tutte le altre ipotesi, il creditore non aderente potrà soltanto scegliere se “cercare” il contatto con il proprio debitore alla ricerca di una soluzione cui aderire o “ignorare” il suo percorso di risanamento fintanto che gli non arrechi un qualche tipo di pregiudizio. Con buona pace dell’articolo 1372 del codice civile.

 

[1] Per le motivazioni si veda per tutti Cass. civ., 12 aprile 2018, n. 9087 per la quale “dovrebbe prendersi atto che la sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coatte amministrative, il concordato fallimentare, il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria”. Nello stesso senso Cass. civ., 8 maggio 2019, n. 12064; Cass. civ., 24 maggio 2019, n. 12965; Cass. civ., 12 aprile 2018, n. 9087; Cass. civ., 24 maggio 2018, n. 12965; Cass. civ., 18 gennaio 2018, n. 1182; Cass. civ., 25 gennaio 2018, n. 1896.

[2] L’art. 2, comma 1, lett. m bis) definisce gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza come: “le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività che, a richiesta del debitore, possono essere preceduti dalla composizione negoziata della crisi”.

[3] Cfr. Trib. Busto Arsizio, 3 maggio 2023, in ilcaso.it; Trib. Lecco, 1 marzo 2023, in Onelegale. In tema di composizione negoziata della crisi si vedano Trib. Ivrea, 17 febbraio 2023, in ilcaso.it; Trib. Padova, 20 luglio 2022, in ilcaso.it; Trib. Trento, 23 settembre 2022, in DeJure; Trib. Brescia, 2 dicembre 2021 in Onelegale.

[4] Cfr. Trib. Bologna, 1 marzo 2023, inedito, che “rilevato che l’art. 55, III comma, C.C.I., in tema di procedimento applicativo, non impone la fissazione di un’udienza al fine di decidere della conferma o revoca delle misure protettive generalizzate ex art. 54, II comma, primo e secondo periodo, C.C.I., né l’instaurazione del contraddittorio con i creditori” ha confermato le misure protettive ex art. 54, comma 2, CCII. Nello stesso senso si veda Trib. Milano, 7 marzo 2024, inedito, che parimenti “rilevata la superfluità della fissazione di udienza e di audizione preventiva e comunicazione ai controinteressati specifici, a differenza della previsione dell’art. 19 CCII in ambito di composizione negoziata (qui provvedendosi con decreto inaudita altera parte e non con ordinanza motivata)”, ha direttamente confermato le misure protettive richieste dal debitore; Trib. Massa, 2 novembre 2023; Trib. Mantova, 3 gennaio 2023; Trib. Macerata, 2 dicembre 2022; Trib. Lucca, 8 settembre 2022; Trib. Milano, 4 aprile 2023, tutte in ilcaso.it.

[5] Cfr. Trib. Napoli 16 novembre 2023, inedito, che ha fissato “udienza ex art. 55, comma 3, CCII […] per la comparizione dell’istante, del commissario giudiziale, e dei creditori ai quali, a mezzo PEC, l’istante darà comunicazione del presente decreto […]”.

[6] Sono così definite le “ulteriori misure temporanee per evitare che determinate azioni di uno o più creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza” previste da detta disposizione.

[7] In tema di composizione negoziata si veda Trib. Bologna, 11 aprile 2024, inedito, che “vista l’integrazione documentale depositata in data 10/4/2024, con la quale parte ricorrente ha allegato l’elenco nominativo dei propri creditori”, ha “ritenuto necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i creditori indicati nell’elenco prodotto”. Nello stesso senso si veda Trib. Bologna, 8 novembre 2022, in dirittodellacrisi.it, che, nell’ambito di un procedimento di conferma delle misure protettive ex art. 19 CCII, fa riferimento ad un precedente provvedimento del Giudice Delegato che ha ordinato alla società debitrice di notificare il ricorso per la conferma delle misure protettive e il decreto di fissazione udienza, oltre che all’esperto della composizione negoziata della crisi, a tutti i creditori.

[8] Cfr. App. Genova, 23 dicembre 2011, in ilcaso.it per cui la legittimazione a proporre il reclamo di cui all’articolo 183 l.fall. avverso il provvedimento di omologa del concordato preventivo deve essere riconosciuta solamente a coloro che nel giudizio di omologazione abbiano rivestito la qualità di parte in senso formale e che si siano, quindi, costituiti nel giudizio di omologazione per aderire all’omologazione stessa o per opporvisi. In dottrina si veda I. Pagni, I giudizi di omologazione nel Codice della Crisi, in dirittodellacrisi.it, 31 agosto 2022.

[9] Cfr. Cass. Civ., 16 aprile 2018, n. 9378, in Onelegale. Si veda anche Trib. Milano 28 dicembre 2023, inedito, che ha specificato che: “riguardo alla posizione giuridica, la suddivisione potrà dipendere dalla natura dell’operazione di finanziamento, dalle caratteristiche della società che ha erogato il credito, dalla qualificazione giuridica, natura e rango del credito (privilegiato o chirografario), dall’esistenza di garanzie, dai tempi di rimborso del credito (con scadenza o condizione)”; mentre “riguardo all’interesse economico la suddivisione in categorie potrà dipendere dalle qualità concrete ed entità del credito e/o del creditore, ovvero dal diverso interesse che il creditore può avere alla soddisfazione del credito, dall’esistenza o meno di prospettive concrete di soddisfazione, anche in forza della presenza o assenza di garanzie personali o meno di terzi e/o della prospettiva di eventuale continuazione del rapporto bancario quale utilità concreta assicurata”.

[10] Cfr. Trib. Milano, 28 dicembre 2023 cit., che ha ritenuto debitamente, tempestivamente e continuamente informato il creditore trascinato informato per il tramite dell’Agente del pool di banche.

[11] Cfr. Corte d’appello Bologna, 28 giugno 2024, inedito, per cui, nell’ipotesi in cui i creditori non aderenti abbiano proposto prima opposizione alla sola estensione – nei loro confronti – dell’omologazione dell’accordo ordinario e poi reclamo avverso il solo capo di sentenza che ha esteso l’omologazione dell’accordo ai non aderenti e non avverso quello che omologa tout court, “[sul]l’accordo di ristrutturazione c.d. ordinario, deve ritenersi formato “giudicato” interno in ordine al raggiungimento della percentuale del 60% dei creditori aderenti, quale condizione necessaria, ai sensi dell’art. 57 CCII, ai fini dell’omologazione dell’accordo ordinario”.

[12] In questo senso si vedano G. Buffelli, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nel CCI, in ilfallimentarista.it, 9 maggio 2019, e G. Benvenuto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nel CCI in Rivista dei Dottori Commercialisti, 2019, p. 544 e ss. che aggiungeva che la sfida tra accordi di ristrutturazione dei debiti e concordato preventivo “verrà vinta dagli accordi di ristrutturazione se il mondo imprenditoriale e gli intermediari finanziari sapranno operare un salto culturale e comprendere che la crisi nel corso della vita di un’impresa rappresenta un evento probabile dal quale è possibile riprendersi con vantaggio del tessuto economico in cui entrambi operano”.

 

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