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alcuni fedelissimi di Messina Denaro lasciano il carcere #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


A lasciare il carcere anche due padrini al 41 bis, Nicola Accardo e Vincenzo La Cascia. Cadute le aggravanti in Cassazione, in Appello è stata ridotta la pena e ciò ha portato alla scadenza dei termini.

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Scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare. È quanto accaduto per alcuni “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro, il boss morto lo scorso anno. Uomini di Messina Denaro che ora potranno tornare in libertà. Lo ha deciso la corte d’appello di Palermo, che su indicazione della Cassazione e per il venir meno della circostanza aggravante del reimpiego economico dei proventi dell’attività mafiosa, era chiamata a rivedere le pene per una serie di imputati.

Arrivano così anche alcune scarcerazioni eccellenti. Il venir meno dell’aggravante in Cassazione ha imposto una riduzione della pena che ha determinato la scadenza dei termini di custoda cautelare per Nicola Accardo, Paolo Bongiorno, Filippo Dell’Aquila, Angelo Greco, Calogero Guarino, Vincenzo La Cascia, Giuseppe Tilotta, Antonino Triolo, Raffaele Urso e Andrea Valenti.

Nicola Accardo, boss di Partanna al 41 bis, ha avuto uno sconto di pena da 15 a 10 anni. A difenderlo l’avvocato Gianni Caracci. C’è poi Calogero Guarino, difeso dall’avvocato Enrico Tignini, che dagli 11 del primo grado è passato a 8 anni. Otto anni anche per Giuseppe Tilotta, 9 anni e 8 mesi per Vincenzo La Cascia, capomafia del clan di Campobello di Mazara, lo stesso paese in cui si nascondeva il boss Messina Denaro. Della stessa città anche il boss Raffaele Urso, che da 18 mesi scende a 11.

Andrea Valenti, parente del boss Bonafede, è invece passato dagli 8 anni ai 7 anni e sei mesi; Filippo dell’Aquila da 12 anni a 8 anni e 8 mesi. Angelo Greco da 8 a 6. Otto anni a Antonino Triolo (aveva avuto 11 anni e 4 mesi); Bartolomeo Tilotta prende un anno e 10 mesi per favoreggiamento. Paolo Buongiorno, che aveva avuto 7 anni e due mesi, in secondo grado ne ha avuti sei.

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Il processo, che si celebrava in abbreviato, nasce da una indagine della Dda di Palermo che coinvolgeva anche il cognato di Messina Denaro, Gaspare Como, che invece ha scelto il rito ordinario. Como, secondo l’accusa, sarebbe stato designato “reggente” del mandamento di Castelvetrano. Dall’indagine venne fuori anche una intercettazione in cui, il factotum di Como, Vincenzo Signorello, rivendicava la bontà della scelta di Riina di uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo.





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