La holding investe 300-350 milioni all’anno. E diversifica con le installazioni Steel for art: pannelli stampati su coil per architetti, designer, costruttori. «Siamo in un settore maturo, serve una svolta», dice il presidente
C’è una frase che Antonio Marcegaglia ripete spesso, da un po’. Anche e soprattutto con i suoi. «Siamo all’inizio di un processo di trasformazione», promette. E fin qui non c’è novità: nell’era della disruption perenne (e conseguenti crisi) non ci si conferma impresa leader, e non si cresce né si produce valore ai ritmi del gruppo che Antonio guida con la sorella Emma, se non si sa gestire e magari anticipare il cambiamento. Difatti è questo, il cuore del messaggio: «Dovremo abituarci a vendere non più tonnellate di acciaio, ma metri quadrati di bellezza». Concetto chiaro per chi, dal giorno d’estate in cui è stato inaugurato, passa davanti al Duomo di Milano e trova la cattedrale delle eterne ristrutturazioni rivestita di pannelli stampati digitalmente su coil. Lo stesso succede a chi a Roma prende la stazione metro di Piazza di Spagna. Sono le prime installazioni del progetto sintetizzato nello slogan «Steel for Art». E sono solo gli step d’esordio, visto il succitato input-ambizione.
Ammetterà, però, dottor Marcegaglia: è difficile associare un produttore siderurgico al concetto di bellezza. Come fattore di business, oltretutto.
«In realtà è sbagliato il presupposto, cioè la concezione che confina il settore all’industria pesante. L’acciaio brutto, cattivo, inquinante… Non è così, non più. O almeno: non è così per la quasi totalità delle imprese italiane. Si parla di siderurgia imprigionati dalle vicende Ilva e si ignora completamente l’altro fronte: l’intera filiera italiana dell’acciaio è l’indiscusso campione green d’Europa. Ecco, per Marcegaglia il progetto Steel for Art significa anche evidenziare questi aspetti al grande pubblico. Quanto al business: abbiamo preso la tecnologia della stampa digitale su lamiera e l’abbiamo applicata a un processo industriale su coil nella logica di fornire un prodotto riciclabile, economico, durevole. E fatto su misura – diciamo pure à la carte – delle esigenze di architetti, designer, costruttori, amministratori pubblici. Non mi sembra poco».
No. Ma i numeri? Marcegaglia, fondata da suo padre Steno nel 1959 partendo dal niente, oggi fattura intorno agli otto miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni, e anche al netto delle fiammate dei prezzi del 2022-2023, avete raddoppiato il giro d’affari, mantenuto un’elevata redditività, migliorato ulteriormente la situazione finanziaria e patrimoniale. Sono i vostri bilanci, prima ancora delle dimensioni, a fare di voi uno dei gruppi top di questo Paese. Pensa che Cromatica, come avete chiamato il nuovo prodotto, possa contribuire in misura significativa? Davvero il futuro sta lì?
«È un punto di partenza: in Europa la siderurgia è un settore maturo e non ha grandi prospettive di sviluppo in termini di volumi. E poiché è lo sviluppo, l’obiettivo di chi fa impresa, le strade sono obbligate. Marcegaglia ha scelto di investire ogni anno 300-350 milioni in due direzioni: crescita interna con l’innovazione, che non è un’opzione ma un obbligo; crescita esterna con le acquisizioni all’estero».
Ne avete fatte di acquisizioni significative, in effetti, negli ultimi due anni.
«Sì, soprattutto la più recente, quella di Fos-sur-Mer. Il sito diventerà uno dei principali hub industriali del gruppo, con un investimento previsto di oltre 600 milioni, e soddisferà circa il 30% del nostro fabbisogno di acciaio. Utilizzeremo metodi di produzione sempre più efficienti e sostenibili, in linea con la più ampia strategia di sviluppo e decarbonizzazione delle attività Marcegaglia. Per dire: produrre acciaio a partire da rottame e da Green Dri consente di ridurre le emissioni di gas serra dell’80% rispetto alla produzione da ciclo integrale. E poi, nel capitolo acquisizioni, c’è il Grand Port di Marsiglia, collocato in una posizione strategica quanto a materie prime e logistica».
Quando taglierete il traguardo dei dieci miliardi di giro d’affari?
«L’obiettivo è tre-cinque anni».
Nel frattempo: potreste cambiare idea sulla Borsa?
«Sfatiamo una leggenda: noi non siamo ideologicamente contrari. La quotazione però porta con sé anche vincoli, costi, limiti. Ci sono investimenti che, fossimo stati a Piazza Affari, non avremmo potuto fare, perché la logica del breve periodo applicata dagli analisti avrebbe penalizzato il titolo. Diciamo che fino a quando il nostro percorso di crescita sano ed equilibrato si può autofinanziare, che è poi uno degli obiettivi cui io e mia sorella abbiamo lavorato in questi dieci anni, non c’è ragione di aprire il capitale. Restiamo un’impresa orgogliosamente familiare».
Arrivata, con voi, alla seconda generazione. Ora, è vero che lei e sua sorella siete giovani, quindi forse è presto per parlare pubblicamente di successione. Non per pensarci, però.
«No, in effetti. Chissà: magari potrà essere quella, l’occasione per portare sul tavolo l’opzione Borsa. Vedremo. Per adesso, io e mia sorella siamo molto concentrati sul presente e sul futuro della nostra azienda e anche delle nostre persone. Ci tengo a sottolinearlo: dedichiamo molto impegno alla crescita di quanti lavorano con noi, a tutti i livelli. Lo facciamo anche attraverso l’Academy Marcegaglia, un progetto recente sul quale stiamo puntando e che spero possa diventare un catalizzatore di iniziative a servizio sia del territorio sia del nostro settore, per contribuire alla formazione di una moderna cultura di impresa responsabile, sostenibile, inclusiva. Cioè i valori che abbiamo ereditato dai nostri genitori».
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