Vicenza
Il direttore don Pajarin interviene dopo l’appello del rettore di San Gaetano a non dare soldi ai questuanti
Una questione di approccio e di reale volontà di incidere attraverso un gesto di generosità, che, al di là delle monetine donate, «diventa davvero tale quando ha come obiettivo la promozione della persona». Sul concetto di carità e sulle parole che domenica mattina il rettore della chiesa di San Gaetano ha pronunciato davanti ai fedeli, esortandoli a non dare soldi a chi chiede l’elemosina («Io i soldi non li do ai delinquenti né ai ladri. Li do ai poveri»), interviene il direttore della Caritas don Enrico Pajarin, anche lui sacerdote, con una visuale speciale sul fenomeno della grave marginalità.
L’esortazione di padre Quattrini
L’esortazione lanciata dal pulpito della chiesa da padre Gino Quattrini e motivata dalla presenza di una rete organizzata che sfrutterebbe i mendicanti, innesca una riflessione, di cui si fa interprete il numero uno dell’organismo pastorale da sempre impegnato sul fronte dei servizi dedicati al contrasto dell’emarginazione sociale. Interpellato sul tema, don Pajarin chiarisce subito che «innanzitutto, serve una pulizia del linguaggio. Perché un conto è la carità nel senso di quel dono che faccio nel promuovere la dignità di una persona in difficoltà, rispondendo ai suoi bisogni, un altro è l’elemosina, una pratica che esiste in tante religioni e può essere legata a una dimensione di sacrificio, io rinuncio a qualcosa di mio, per donarlo a qualcun altro».
«Allontanare un parcheggiatore molesto è dare il pizzo»
Diverso è il discorso «quando diamo dei soldi, ad esempio, a un parcheggiatore molesto. In questo caso, non stiamo facendo nulla per promuovere la dignità di questa persona, nulla per il suo futuro; magari in quel momento la priorità è solo allontanarlo. Tutto questo direi che equivale a pagare il pizzo. Allora sarebbe più giusto esortare a non pagare il pizzo, non a evitare di dare l’elemosina, perché quelle monete donate vanno ad alimentare un circuito di reati e schiavitù di queste persone».
«Se si dona per “minaccia” è un ricatto»
«Io non mi sentirei, quindi, di dire alle persone di non fare l’elemosina – prosegue il religioso -. Gesto che, invece, appartiene a una dimensione religiosa in grado di scatenare un meccanismo spirituale; certo, se doniamo perché abbiamo paura o perché ci sentiamo minacciati, allora la questione impone di interpellare le forze dell’ordine. Come cittadini, non dovremmo cedere a questo tipo di ricatti con i quali si va ad alimentare un mercato nero». Aiutare chi si trova in difficoltà significa qualcosa di diverso per don Pajarin: «Siamo consapevoli del fatto che un euro donato non risolverà i problemi del questuante? E che questo potrebbe farne un uso improprio?».
Il contributo si può dare ad associazioni affidabili
L’alternativa non è stare a guardare, «ma cercare di dare il proprio contributo attraverso le organizzazioni che si occupano di dare sostegno e cura a queste persone». Una generosità che così non viene meno, ma anzi si moltiplica, secondo don Pajarin: «L’incentivo non è a non dare, ma a dare in maniera più coordinata. I livelli sono tre: do perché ho paura, do perché così mi metto il cuore in pace, anche se questo non permetterà al mendicante di emanciparsi dallo stato di povertà; e poi c’è un’altra forma di solidarietà». Quale? «Quella che consente di dare dignità alle persone che si trovano in difficoltà, di accompagnarle nel loro cammino verso l’autonomia», considera il direttore di Caritas, che conclude: «Il mio non è un invito all’indifferenza, ma un’esortazione a un coinvolgimento più grande da parte di ciascuno, attraverso le realtà che si occupano degli ultimi. Questo significa dare dignità a una persona e considerarla in una visione olistica, allora è lì che anche l’elemosina può trovare un senso. Altrimenti rischia di essere un modo per sistemarsi la coscienza, che non porta benefici».
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