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Scandalo Stellantis, la politica industriale non si improvvisa #finsubito prestito immediato


Sentirsi dire “ve lo avevo detto…” non fa mai piacere a nessuno. Ancora di più in politica, dove in tanti si sentono leader, anche quando magari non hanno titoli per meritarlo ma devono ruolo e funzioni ad una serie di combinazioni. Intendiamoci, questo non è un giudizio di merito, né una manifestazione di presunzione: però, a leggere certe dichiarazioni sulla vicenda Stellantis, viene proprio la voglia di far presente che, quello che accade, non è figlio del destino, ma soltanto il frutto, in questo caso avvelenato, di scelte che vengono da lontano.

Per chi non sa o non lo ricorda, Stellantis nasce dalle ceneri della Fiat. E non perché la storica casa automobilistica torinese sia morta, ma semplicemente perché la gestione degli Elkann (indegni eredi della famiglia Agnelli) ha distrutto in pochi anni il patrimonio di italianità che aveva rappresentato uno dei collanti del “sentire” nazionale. Oggi invece Fiat è solo uno dei marchi di questo gruppo che, della storica azienda, non ha praticamente più nulla. Gli Elkann guardano altrove, nel board di comando di italiani non ce n’è manco l’ombra e persino la sede del gruppo è all’estero, in Olanda. Si dice per motivi fiscali, ma questi hanno rappresentato il comodo paravento per spostare altrove l’asse di uno dei più autentici simboli industriali del nostro Paese. Direte voi, con le scelte ingenerose e ciniche degli Elkann cosa c’entra la politica di casa nostra? C’entra eccome.

Senza scomodare i tanti precedenti illustri di altri Stati che hanno saputo preservare le loro imprese nel perimetro nazionale degli interessi, senza mollare di un millimetro rispetto a tentativi di cessione di sovranità sta di fatto che l’Italia ha disinvoltamente accompagnato le scelte degli Elkann di far cassa in proprio, smantellando la storia industriale di questo Paese per incrementare a dismisura i loro personali profitti e vantaggi. Oggi, mentre si moltiplicano i Paesi del mondo dove si producono modelli Fiat (e degli altri marchi del gruppo), in Italia gli stabilimenti si “asciugano”, la cassa integrazione dilaga, la progettualità degli investimenti è tutta indirizzata altrove.

E quel che è più grave è che le basi di quella disfatta sono state poggiate in piena luce, con la politica dei governi renziani prima e la dichiarata connivenza delle sinistre poi, che hanno illuminato il progetto di marginalizzazione del nostro Paese dei brillocchi scintillanti della internazionalizzazione. Andate a rileggere le dichiarazioni di quegli anni e ritroverete manifestazioni di autentico entusiasmo per le acquisizioni di marchi e aziende in giro per il mondo da parte dei nipotini dell’avvocato Agnelli che avrebbero dovuto far più grande la Fiat e l’Italia. Invece non erano acquisizioni, ma semplici diluizioni della leadership italiana per poi arrivare alla nostra completa marginalizzazione strategica. Il paradosso è che mentre si consentiva “indifferentemente”, come recita la famosa canzone la spostamento in Olanda di sede e ponte di comando, il gruppo continuava a contare su di un fiume in piena di denaro pubblico italiano.

Soltanto tra il 1990 e il 2019, Fiat (includendo anche Magneti Marelli, Iveco e Pwt) ha potuto contare su circa 4 miliardi di euro di finanziamenti a fondo perduto in buona parte, rispetto ai poco più di 10 miliardi di investimenti dichiarati. Dunque, almeno il 40% degli investimenti Fiat sono stati pagati direttamente dallo Stato italiano. Nel 2020 poi, in piena pandemia, Fca ha ricevuto addirittura 6,3 miliardi di prestiti, tutti coperti da garanzia pubblica. La linea di credito doveva essere utilizzata per far fronte alle pesanti ripercussioni del lockdown nel nostro Paese. E invece quel denaro è stato utilizzato in larghissima parte per realizzare la fusione di Fca con Psa, funzionale appunto alla nascita di Stellantis. E poi ci sono anche 1,5 miliardi di incentivi e 703 milioni per la cassa integrazione.

Di fronte a questo fiume di denaro, la risposta di Stellantis è stata, dal 2021 a oggi, la riduzione del numero dei dipendenti e il taglio della produzione italiana di autoveicoli, mentre gli azionisti in testa gli Elkann si sono messi in tasca, sotto forma di dividendi,16,4 miliardi di euro! Tutto questo con la colpevole e connivente collaborazione della politica. Diciamoci la verità: uno scandalo. Ecco perché merita di essere sottolineato che, di fronte alle indecenti dichiarazioni dell’ad Tavares (che ha chiesto altri aiuti dallo Stato!), la risposta sdegnata del vicepremier Matteo Salvini segna una svolta. Anche perché Salvini non si sta certo limitando ad una umorale replica (che peraltro sarebbe già da sola una novità, dopo anni di zerbinaggio della politica), ma sta avviando un’operazione verità.

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Finalmente conosceremo la quantità precisa del denaro pubblico incassato da Stellantis negli anni, dei lavoratori italiani licenziati o messi in cig e degli stabilimenti aperti all’estero coi soldi nostri, ma soprattutto il gruppo dovrà spiegare esattamente cosa hanno fatto col denaro degli italiani e perché. E prendere precisi impegni per il prosieguo rispetto al nostro Paese. Dunque, l’avvio di una nuova stagione che deve servire ad imporre serietà a chi da anni gioca con gli italiani e ancor di più a ribaltare il sistema delle priorità industriali di Stellantis, restituendo centralità all’Italia, pena azioni e sanzioni. Insomma, il segnale di Salvini è forte e chiaro: la politica industriale non si fa tirando fuori i soldi pubblici e consegnandoli fideisticamente all’impresa, ma accompagnando, con visione progettuale e attenzione, le proposte che vengono avanzate, valutandone le finalità, calibrando gli obiettivi rispetto agli interessi pubblici, monitorando le azioni di chi opera e avendo cura di esercitare una costante moral suasion.

A tal riguardo mi permetto di ricordare che un esempio, assai positivo, dell’esercizio della funzione pubblica in materia di politica industriale lo abbiamo dato proprio qui in Campania e proprio all’allora Fiat. Sto parlando della stagione del rilancio del polo industriale dell’auto di Pomigliano che ho seguito direttamente da assessore regionale al Lavoro della Campania. La trasformazione di quel polo industriale ormai datato e quasi fuori mercato, in un contesto industriale d’avanguardia, con tecnologie, impianti e tecniche produttive innovative sul piano mondiale, non è stata il frutto del caso, ma il risultato virtuoso di un’operazione pubblico-privata scandita dalla collaborazione leale tra le parti (Istituzioni, azienda, sindacati) nella quale la Regione ferma la libertà dell’iniziativa economica privata ha saputo essere guida.

Con quell’azione realizzammo coi fatti le condizioni perché Fiat continuasse a restare e a produrre qui da noi, con un’operazione che ha consentito fino ad oggi che Pomigliano non venisse aggredita dal new deal Stellantis. Non fu semplice ma ci riuscimmo, muovendo le leve giuste, dimostrando che la politica industriale non si improvvisa dall’oggi al domani, ma si applica mettendo in campo competenze, agendo con scelte precise e visione programmatica. Il tutto con un messaggio chiaro: la Campania non è terra di conquista per nessuna azienda, qui non si fa cassa e poi si scappa, chiudendo gli stabilimenti, licenziando gli operai. Purtroppo tutto questo, negli ultimi anni, a causa della connivenza distratta e complice dei Governi di sinistra, nazionali e regionali, è venuto a mancare.

E gli scricchiolii inevitabilmente colpiscono anche il nostro territorio. Ecco perché anche attraverso la sinergia con un Governo nazionale che sta mostrando pure sotto questo versante una logica d’approccio finalmente diversa noi siamo pronti ad accettare l’ennesima sfida per invertire la rotta, per garantire occupazione, futuro, benessere al Nostro Posto, ripartendo da quello che riuscimmo a realizzare a Pomigliano d’Arco, nel nome del buongoverno e dei fatti.

©RIPRODUZIONE RISERVATA





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