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I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, sono diminuiti ma solo la Romania ne ha più di noi: radiografia aggiornata #finsubito prestito immediato


Negli ultimi due anni i Neet in Italia sono diminuiti e sono 1 milione e 700 mila, ma sulla loro condizione marginale pesano la bassa istruzione e la disparità di genere che penalizza le giovani donne e che è particolarmente acuta nel Mezzogiorno

Nei giorni scorsi prendendo parte ad un dibattito sul mercato del lavoro mi è capitato di evocare il dato dei Neet anomalo nel contesto europeo. Si sa – a me capita spesso – che chi parla è convinto che quelli che ascoltano abbiano le sue stesse informazioni e conoscenze di base. A me in quella occasione è stato chiesto che cosa si intendesse con l’acronimo Neet. Dopo essermi cimentato con una definizione in un inglese stentato (Not in education, employment or Training), mi sono rassegnato ad usare la mia lingua fornendo un’ampia spiegazione della materia. In Italia , circa 1,7 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non studiano, non lavorano e non sono impegnate/i in un percorso formativo da almeno 6 mesi . Tra il 2014 e il 2023, il tasso di incidenza Neet in Italia delle e dei giovani tra i 15 e i 29 anni è sceso (anche questo è un trend positivo) di circa 10 punti percentuali: dal 26,3% si è passati al 16,1%. I principali miglioramenti si sono percepiti negli ultimi due anni. La quota di Neet nel 2023 è infatti diminuita di 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente, e di quasi 7,6 rispetto al 2020.

Neet, di che si tratta?

Nonostante il miglioramento, l’Italia si conferma essere ancora il secondo Paese nell’Ue con il più alto tasso di Neet, preceduto solo dalla Romania (19,8%), e lontano dalla media europea dell’11,7%. Ma la spiegazione da manuale non è bastata. La persona che mi aveva rivolto la domanda ha commentato: “Ma se questi giovani non studiano, non lavorano, non sono impegnati in un percorso formativo, che cosa fanno tutto il giorno?”. Mi è sembrata una considerazione di buon senso, meritevole di un approfondimento. Mi sono quindi messo alla ricerca di indagini sociologiche di diverso orientamento, con l’obiettivo di individuare non solo gli aspetti strutturali del fenomeno complesso, ma di avvicinarmi a comprenderne le motivazioni senza accontentarmi delle generiche analisi circolanti tra le quali la frustrazione maturata a causa delle difficoltà di un accesso adeguato che scoraggerebbe i giovani ad attivarsi preferendo invece prendersi una “pausa”. È questo il titolo di un’ampia ricerca sul tema della Cgil, nella quale vengono raccolti dati importanti dell’Istat, riguardanti le caratteristiche della componente degli inattivi.

Secondo la ricerca l’88% di giovani che non studia e non lavora ha un livello di istruzione medio-basso. In particolare, il 51% ha un diploma – di scuola superiore di secondo grado (44%) o di qualifica professionale (8%) – il 33% ha la licenza media e solo il 13% ha una laurea triennale o un titolo più alto. I dati Istat rivelano quindi che il titolo di studio può incidere sulla probabilità di entrare o uscire dalla condizione di Neet. Evidenziano, inoltre, un’importante correlazione tra la tendenza a ricadere in una condizione di inattività e il livello di istruzione medio-basso: Anche tra i Neet emerge la consueta disparità di genere.

Neet, qual è la situazione delle donne?

Nell’ultimo decennio, la quota di donne Neet è rimasta sempre molto alta rispetto a quella degli uomini, peggiorando nell’ultimo anno. La percentuale di donne Neet aumenta nel caso delle giovani di origine straniera arrivando a toccare il 73%. La maggiore incidenza di donne che non studiano e non lavorano si registra nei territori del Sud Italia e nelle Isole (Sicilia, Campania, Calabria, Puglia). Complessivamente, le donne hanno un’età maggiore rispetto agli uomini, il 40% ha infatti tra i 30 e i 34 anni, il 33% tra i 25 e i 29 anni, il 21% tra i 20 e i 24 anni e il 6% tra i 15 e i 19 anni. La quota più ampia di ragazzi in condizione di Neet ha invece tra i 20 e i 24 anni (32%); più numerosi rispetto alle donne risultano essere anche i giovani Neet tra 15 e 19 anni (12%).

Le ragioni di tale disparità possono essere diverse: da un lato, potrebbe esserci una maggiore tendenza dei ragazzi ad abbandonare precocemente i percorsi di istruzione, confermata anche dai dati riguardanti i titoli di studio che contano una quota di giovani Neet laureate (15%) maggiore di quella dei loro coetanei uomini (10%); dall’altro, la maggiore presenza di donne Neet nella fascia 30-34 anni potrebbe essere correlata alla tendenza delle giovani ad uscire dal mercato del lavoro a causa della necessità di gestire carichi di cura familiari. Una supposizione, quest’ultima, che potrebbe trovare conferma nei dati riguardanti Neet inattive/i di cui le ragazze rappresentano la quota maggiore (65%): di queste, il 46% afferma che vorrebbe lavorare anche se non sta cercando un’occupazione, mentre tra le restanti il 30%, dichiara di non essere alla ricerca di lavoro perché impegnata nella gestione dei carichi di cura familiari di minorenni o persone non autosufficienti e il 21% per altri motivi familiari (es. è casalinga). Le giovani donne Neet, quindi, seppur impegnate a tempo pieno nel lavoro familiare di cura, vengono, erroneamente definite “inattive”.

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La loro indisponibilità – secondo la Cgil – è determinata dal lavoro non retribuito che già svolgono in ambito familiare e che le ostacola nell’accesso a opportunità occupazionali e formative. Nel caso degli uomini, che rappresentano il 35% delle persone Neet inattive, solo l’1% non è in cerca di lavoro per motivi connessi alla gestione di carichi di cura e il 5% per altri motivi familiari. In una intervista sulla rivista Civic, un esperto di vaglia come Maurizio Del Conte individua una significativa relazione tra l’inattività e l’abbandono scolastico, nel senso che non è più praticabile la regola per la quale colui che non aveva più voglia di studiare veniva mandato a lavorare dalla famiglia.: “L’operaio generico che l’industria italiana assumeva nel passato non c’è più”.

Oggi anche – fa notare Del Conte – per lavorare nella produzione industriale serve un diploma, una specializzazione meccanica, elettronica, o meglio ancora robotica. Tutte le professionalità richiedono specifiche competenze tecniche da applicare, competenze che il più delle volte mancano e che contribuiscono ad aumentare il gap tra domanda e offerta sul mercato del lavoro. Alla base di questa discrepanza vi sono anche le carenze dell’orientamento scolastico che finiscono per racchiudere nell’ambito della famiglia o del giro di amicizie la scelta formativa, a conclusione dell’obbligo, che condizionerà tutta la vita del ragazzo.

Neet, in un rapporto il quadro del fenomeno in Italia

Questa analisi è in linea con i nuovi elementi di valutazione contenuti anche nel rapporto Lost in Transition del Consiglio nazionale dei Giovani, dove viene tracciato un quadro molto diverso da quello consueto. Pur confermando che, a livello ufficiale, poco più di due milioni di giovani non studia e non lavora, il rapporto qualifica questa cifra con dettagli che assumono una grande importanza per chiarire quale sia la natura del fenomeno Neet in Italia.

Lost in Transition riporta infatti che, stando ai dati raccolti, l’88,9% dei Neet italiani che vivono nelle città e quasi il 75% di quelli che vivono nelle aree interne ha o avrebbe avuto di recente un lavoro. Questi impieghi però non emergono nelle statistiche ufficiali perché in buona parte si tratta di lavori irregolari, senza contratti e senza una retribuzione a norma di legge. Come riassume lo stesso rapporto, si tratta quindi di lavoro nero.

Non si tratta però soltanto di lavoretti. Il 50% dei Neet nelle aree urbane dichiara di essere economicamente indipendente, percentuale simile a quella dei Neet che risulta avere un diploma di laurea o accademico nelle aree urbane, oltre il 63%. Anche se questi dati sono confortanti per quanto riguarda la situazione sociale dei giovani italiani, rimangono però comunque gravi dal punto di vista economico.

Una fascia significativa della popolazione attiva, tra quella che dovrebbe essere maggiormente coinvolta nell’attività economica, è relegata a un ruolo marginale. I lavori saltuari, senza contratti e garanzie, comportano un’incertezza che compromette i progetti futuri di queste persone e ha impatti seri su diversi aspetti della società italiana, dai consumi fino allo sviluppo di una famiglia e alla crisi delle nascite.

Il tema centrale del rapporto Lost in Transition è però il confronto tra le aree metropolitane e il resto del Paese, denominato aree interne. Buona parte dei dati positivi per quanto riguarda i Neet proviene infatti dalle prime, con l’eccezione soltanto del numero di giovani che effettivamente lavora anche se in nero, molto alto anche in provincia (74,8%) seppur lontano 15 punti percentuali dai risultati fatti registrare in città. In sostanza, emergerebbe un nuovo rapporto con il lavoro che vedrebbe i giovani – stabilmente al riparo del contesto familiare per le esigenza normali della vita – accedere al lavoro per “fare provvista” di un reddito, magari temporaneo, da impiegare in finalità emerse in un determinato arco temporale. Per concludere, non sembra possibile imprigionare un fenomeno complesso come quello dei Neet in un modello univoco e in una interpretazione uniforme, anche perché prima o poi si dovranno mettere i fila tematiche che comunemente vengo affrontate ognuna per sé: la povertà educativa, la condizione di povertà assoluta tra i lavoratori occupati, soprattutto giovani, e il lavoro irregolare.

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