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Legittima la clausola del contratto di apprendistato professionalizzante che, in caso di dimissioni anticipate del lavoratore, addebita al dipendente i costi della formazione sostenuti dalla società.

Con la sentenza n. 1646 del 9 febbraio 2024, il Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, ha accolto il ricorso con cui una società aveva chiesto di vedersi riconoscere il diritto alla restituzione di somme nei confronti di un apprendista dimissionario.

Quest’ultimo era stato assunto con contratto di apprendistato professionalizzante che prevedeva un percorso formativo della durata di 36 mesi.

L’apprendista aveva rassegnato le proprie dimissioni volontarie quando era ancora in corso il periodo di formazione, pur nel rispetto del termine di preavviso.

L’oggetto del contendere: restituzione delle somme, legittima?

Il ricorso del datore di lavoro

L’azienda, ciò posto, aveva convenuto davanti al Tribunale il proprio ex dipendente per chiedere il rimborso delle somme relative ai 125 giorni di formazione impartita, sostenendo che le dimissioni erano prive di giusta causa o giustificato motivo.

Le predette somme erano richieste a titolo di recupero delle spese sostenute dalla società per l’erogazione, nei confronti del lavoratore, delle giornate di formazione professionale erogate.

Nel contratto, in particolare, era previsto che durante il periodo formativo le parti avrebbero potuto recedere dal contratto solo per giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest’ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso.

Inoltre, era disposto che, nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, sarebbe stata trattenuta una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata, fino al momento del recesso.

La posizione dell’apprendista dimissionario

Il dipendente si era opposto alle pretese del datore, sostenendo l’illegittimità della clausola di durata minima garantita del rapporto e della trattenuta dalla stessa prevista.

L’apprendista, in particolare, lamentava le modalità di contrattazione della predetta clausola, a suo dire vessatoria e inserita nel contratto in assenza della necessaria enunciazione dettagliata delle relative conseguenze ed effetti.

La decisione del giudice del lavoro

Il Tribunale ha accolto la domanda della società datrice di lavoro, ritenendo fondato il relativo ricorso.

Dalle previsioni contrattuali risultava chiaro che, salvo il rispetto dei termini di preavviso, in caso di dimissioni prive di giusta causa, il lavoratore era tenuto al rimborso di una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata.

Clausola valida, non vessatoria

Ebbene, andava rigettata, in primo luogo, l’eccezione di vessatorietà della clausola in parola.

Detta clausola, a ben vedere, aveva lo scopo di predeterminare l’entità del risarcimento del danno a favore del datore nell’ipotesi in cui il lavoratore non avesse rispettato il periodo minimo pattuito di durata del rapporto (c.d. patto di stabilità).

Sul punto, il giudice del lavoro ha richiamato il principio secondo cui “in materia contrattuale, le caparre, le clausole penali ed altre simili, con le quali le parti abbiano determinato in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento, non avendo natura vessatoria, non rientrano tra quelle di cui all’art. 1341 c.c. e non necessitano, pertanto, di specifica approvazione” (Cassazione n. 18550/2021).

Esclusa, dunque, la natura vessatoria della pattuizione in esame, andava escluso, altresì, che la medesima clausola potesse dirsi illegittima.

Ferma, infatti, la disciplina delle condizioni del contratto di apprendistato fissate dal legislatore, l’ordinamento non pone alcun limite all’autonomia privata relativamente alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore.

Nella specie, si era in presenza di una clausola di durata minima correlata ad un diritto potestativo disponibile, ai sensi della quale il datore di lavoro che lamentasse il mancato rispetto del periodo minimo di durata poteva chiedere al lavoratore il risarcimento del danno.

Per il Tribunale “La meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro rispetto a siffatta clausola è rinvenibile nel dispendio economico sopportato dalla azienda per la formazione di un proprio dipendente al fine di destinarlo allo svolgimento delle mansioni e fruendo di una formazione dedicata”.

Come, peraltro, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, “l’accordo deve ritenersi legittimo quando da parte dell’imprenditore sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore per poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore”.

Esclusa l’eccessiva onerosità della pattuizione

Per il Tribunale di Roma, inoltre, andava anche escluso che la clausola in esame, nella valutazione della complessiva economia del rapporto, fosse eccessivamente onerosa.

Di fatto, il datore di lavoro non si era sostanzialmente potuto avvalere del contributo lavorativo effettivo del dipendente, impegnato nella formazione relativa all’acquisizione della posizione lavorativa di operatore specializzato, per la quale occorrono specifiche abilitazioni.

Da qui l’accoglimento della domanda della società datrice di lavoro, con declaratoria del relativo diritto al rimborso, da parte dell’ex apprendista, dell’ammontare dovuto per la formazione prestata, per come quantificato in base al numero di giornate di formazione professionale complessivamente erogate, e al criterio della retribuzione corrisposta per ogni giornata.

 

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