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Martedì mattina si sono svolte le principali audizioni sul disegno di legge di bilancio, cioè il provvedimento con cui il governo definisce la propria politica economica per l’anno seguente (chiamato anche manovra finanziaria). Come ogni anno varie istituzioni, associazioni di categoria ed enti pubblici sono stati convocati dalle commissioni competenti di Camera e Senato per dare la propria valutazione. Martedì sono intervenuti, tra gli altri, i rappresentanti di ISTAT, Corte dei Conti, Banca d’Italia e Ufficio parlamentare di bilancio (l’organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica), e i loro contributi sono stati come sempre utili per comprendere meglio i dettagli della legge di bilancio e gli eventuali effetti che avrà.
Anzi, quest’anno lo sono stati più del solito poiché il ministero dell’Economia ha illustrato in maniera spesso sbrigativa le norme inserite nella manovra («Le relazioni tecniche dei provvedimenti non sempre consentono di quantificare gli effetti degli interventi», lamenta non a caso l’Ufficio parlamentare di bilancio).
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Nel complesso, un po’ tutti hanno riconosciuto il principale merito della legge di bilancio nella sua natura prudente sui saldi di finanza pubblica: in un quadro economico che va deteriorandosi, con una crescita economica in rallentamento e una vitalità del sistema produttivo e industriale in calo, il governo ha definito una traiettoria di spesa e di indebitamento che si potrebbe definire “austera”, cioè rispettosa dei vincoli imposti dalle regole europee del nuovo Patto di stabilità.
Un altro elemento generalmente apprezzato è stata la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro per le aziende e quanto il dipendente riceve effettivamente di stipendio netto: finora era stato temporaneo, rinnovato di anno in anno in un contesto di incertezza. Nel complesso, è stato osservato come la manovra abbia un approccio piuttosto “di sinistra”, per dirla in maniera grossolana, pur essendo stata scritta da un governo di destra: c’è una grande attenzione per i redditi medio-bassi e per i lavoratori dipendenti, che vengono avvantaggiati rispetto agli autonomi, con un effetto redistributivo che riduce anche se di poco le disuguaglianze sociali (secondo Banca d’Italia, con un calo di 0,3 punti nell’indice di Gini, quello che appunto misura le disuguaglianze).
A fronte di questi aspetti positivi, sono stati però indicati anche alcuni problemi rilevanti.
Da un lato lo scarso sostegno alle imprese, con un sostanziale definanziamento di alcuni fondi e progetti per incentivare gli investimenti. Dall’altro un preoccupante aumento della complessità del sistema fiscale, che rende più difficile orientarsi e potrebbe comportare anche un maggior rischio di contenziosi. Il taglio del cuneo fiscale, infatti, prevede una contestuale riforma dell’IRPEF (l’imposta per le persone fisiche) attraverso l’introduzione e l’ampiamento di alcuni bonus, un po’ come avvenne per gli 80 euro del governo di Matteo Renzi nel 2014: e questo rende il ridisegno del sistema dell’IRPEF meno lineare e più cervellotico.
Tagli lineari, meno risorse al Sud e agli enti locali
Altri aspetti critici riguardano le misure di riduzione della spesa pubblica, la cosiddetta spending review, rese necessarie per far quadrare i conti pubblici e per rispettare le regole europee. Sia Banca d’Italia sia la Corte dei Conti hanno rilevato come, nell’urgenza di ridurre i bilanci dei vari ministeri, si sia scelto di decurtarli in maniera proporzionale (per un totale di 7,7 miliardi nei prossimi tre anni) senza una vera valutazione sulla bontà e sull’utilità delle voci che si andranno a eliminare e sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni e delle politiche interessate. È la logica dei cosiddetti tagli lineari: «Una soluzione legata ai tempi stringenti imposti dalla manovra», osserva la Corte dei Conti, ma che «risulta insoddisfacente».
Un altro effetto negativo dei tagli di spesa riguarda il bilancio degli enti territoriali (comuni, province e soprattutto regioni): nella ridefinizione complessiva dei vari fondi, tra trasferimenti e accantonamenti di spesa, le amministrazioni locali dovranno rinunciare a 5 miliardi nei prossimi tre anni, contribuendo così anche loro al parziale risanamento del bilancio statale. L’UPB nota che anche gli interventi a favore delle aree disagiate e in particolare del Sud risentono delle restrizioni di spesa, e godranno di molti meno incentivi rispetto a quelli previsti: non più 14,7 miliardi di euro tra il 2025 e il 2029, ma 8,5 miliardi.
Anche la misura a sostegno della ZES unica (cioè un’unica Zona Economia Speciale per tutto il Sud, con agevolazioni fiscali tramite credito d’imposta riconosciuto alle imprese che lì operano o che lì trasferiscono la propria attività), che vale 1,6 miliardi e vale per il solo 2025: secondo Banca d’Italia è una soluzione che aumenta l’incertezza per le imprese stesse, «con possibili ripercussioni sulla capacità della misura di generare investimenti addizionali».
Scuola e sanità in affanno
Anche il pubblico impiego subisce gli effetti di questo rigore di bilancio. Il blocco del turn over, cioè il ricambio generazionale dei dipendenti, pone tra l’altro grosse incognite sull’efficienza del sistema scolastico: la Corte dei Conti dice che il taglio di circa 8.000 tra docenti e personale amministrativo impone di «valutare con largo anticipo gli effetti di questa riduzione nell’ambito del complesso iter di formazioni delle classi per il prossimo anno scolastico».
Ma il settore maggiormente interessato dalle ristrettezze di bilancio è la sanità. Tutte le istituzioni sentite martedì in parlamento sono state concordi nel constatare come i limitati aumenti nel finanziamento al Servizio sanitario nazionale (1,3 miliardi in più nel 2025) restano comunque modesti sia rispetto al prodotto interno lordo (PIL) sia, soprattutto, riguardo alle reali esigenze del settore. La spesa sanitaria sale di appena un decimo, tornando al 6,4 per cento del PIL (cioè ai livelli medi ordinari di prima della pandemia), e i finanziamenti previsti dal governo per i prossimi anni appaiono insufficienti rispetto alla necessità di assumere nuovo personale e rinnovare i contratti dei dipendenti, oltre che a sostenere le maggiori spese richieste per mantenere in funzione reparti e strutture.
(Tra l’altro la Corte dei Conti ha segnalato come la spesa per gli acquisiti delle prestazioni specialistiche e ospedaliere da privati sia «risultata ben al disopra del limite vigente», e dunque le strutture pubbliche rischiano di non avere più le risorse necessarie).
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Le obiezioni di Banca d’Italia sul bonus per la natalità
Nel dibattito parlamentare si è parlato molto delle misure a favore della natalità, e in particolare sul bonus da mille euro per le nuove nascite o le adozioni a partire dal 2025 che spetta alle famiglie con un ISEE inferiore ai 40.000 euro. Un intervento nel complesso meritorio, a giudizio di un po’ tutti gli istituti interpellati, ma rispetto al quale sono significativi alcuni rilievi fatti da Banca d’Italia, secondo cui, stando a vari studi e ai precedenti di altri paesi presi in esame, per incentivare la natalità più che i bonus hanno valore «le misure che redistribuiscono o alleggeriscono il carico di lavoro domestico, quali l’ampliamento dell’offerta di asili nido e dei relativi sussidi alla frequenza».
Da questo punto di vista, Banca d’Italia osserva con perplessità la riduzione degli investimenti previsti nella precedente legge di bilancio per il 2022 (l’ultima fatta dal governo di Mario Draghi) e la ridefinizione al ribasso degli impegni fissati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) circa la creazione di un numero minimo di posti disponibili negli asili nido in ciascun comune. E allo stesso modo, più che introdurre un nuovo bonus, Banca d’Italia suggerisce che sarebbe stato più utile e efficace un potenziamento dell’Assegno unico universale.
Le coperture sono il principale punto debole
Ma forse l’elemento più critico della legge di bilancio segnalato nelle audizioni riguarda le coperture finanziare previste dal governo, cioè l’effettiva esistenza di risorse necessarie per finanziarie le misure inserite nella manovra.
Sia Banca d’Italia sia l’UPB hanno segnalato come nella legge di bilancio vengano previsti, tra le coperture, 1,6 miliardi che deriverebbero dagli effetti positivi della legge di bilancio stessa. In sostanza, il governo stima con ottimismo che l’attuazione dei provvedimenti inseriti nella manovra faccia aumentare il PIL, e questo aumento garantisca di conseguenza un incremento delle entrate fiscali, quindi dei soldi che confluiscono nelle casse dello Stato. E queste ultime potranno essere utilizzate per finanziare le misure previste.
È un po’ un esercizio perverso di contabilità, che prende il nome di «retroazione fiscale», ed è una prassi azzardata che non a caso era stata abbandonata dal 2017 proprio per evitare che un errore nelle previsioni comportasse poi un ammanco nel bilancio. Quando nel 2021, in occasione dell’approvazione del PNRR, il governo di centrosinistra di Giuseppe Conte aveva riproposto questo tipo di previsione, i partiti di centrodestra, e in particolare Forza Italia, protestarono e dissero che «l’utilizzo come copertura della “retroazione fiscale” è sempre stato giudicato non conforme ai principi di contabilità pubblica».
Peraltro, la stima di questo effetto positivo sulla finanza pubblica, che pure è giudicato verosimile in termini generali dall’UPB, è sottoposta in verità a fattori imprevedibili che potrebbero cambiare la situazione economica italiana ed europea dei prossimi mesi, e da cui dipenderanno, tra l’altro, l’effettivo andamento dei consumi delle famiglie (su questo l’UPB è scettico) e quello delle entrate fiscali. I segnali che arrivano dai mercati internazionali inducono sia l’ISTAT, l’UPB e Banca d’Italia a guardare con pessimismo le stime di crescita indicate dal governo per il 2024 (+1 per cento) e per il 2025 (+1,2 per cento): al momento queste stime vengono confermate, ma appaiono «esposte a diversi rischi al ribasso», dice l’UPB.
Peraltro queste incertezze sulla consistenza delle coperture aumentano nel medio termine. Quella che era stata più volte annunciata come la tassa sugli extraprofitti bancari è poi diventata un semplice rinvio delle deduzioni fiscali previste per il 2025 e il 2026 agli anni seguenti: in sostanza, il governo trattiene alcuni incentivi che spetterebbero alle banche, ma dovrà poi restituirli alle banche stesse tutti insieme a partire dal 2027 fino al 2029. Un processo analogo è previsto per le imposte di bollo nel settore delle assicurazioni. Ma «trattandosi di un puro anticipo di imposta», osserva la Corte dei Conti, «un effetto di incasso più consistente nel prossimo biennio si rifletterebbe, tuttavia, in una perdita di gettito più pronunciata dal 2027».
Inoltre, nelle sue previsioni il governo stima che l’aumento di gettito derivante dalle maggiori entrate fiscali e dalla riduzione dell’evasione di quest’anno, con circa 20 miliardi di entrate in più rispetto al 2023, si confermi stabilmente anche negli anni seguenti. Però è una scommessa un po’ rischiosa: come ha detto Banca d’Italia, ripetendo un avvertimento già fatto a inizio ottobre, «non è certo che il miglioramento dei conti dell’anno in corso, che riflette il vivace andamento delle entrate dirette, abbia natura pienamente strutturale».
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