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Dal «pizzo di Stato» allo «Stato comprensivo». Nel corso del tempo è stato mutevole il modo di parlare delle tasse usato dalla presidente del consiglio Meloni. Nel ristretto giro di pochi mesi, dal 27 maggio 2023 a ieri in un convegno alla Camera, è passata dall’accusare lo Stato che governa di agire come un’associazione mafiosa sul gettito prodotto dai commercianti a uno «Stato amico» che sta vicino agli «italiani onesti che si trovano in difficoltà e meritano di essere aiutati, messi in condizione di pagare ciò che devono». Nel mezzo c’è l’ideologia fiscale di una politica che riesce a coniugare le tesi dello Stato minimo al servizio delle imprese «che producono ricchezza insieme ai lavoratori» con quelle del paternalismo dell’estrema destra.

Il discorso di Meloni è stato programmatico. Da un lato, ha colpito la presunta «sinistra delle tasse» e ha citato un’incauta uscita di Tommaso Padoa Schioppa sulle «tasse bellissime» (intendeva, quel ministro tecnico del governo Prodi, a condizione di fare funzionare i servizi). Dall’altro lato, Meloni, ha sostenuto che sono bellissime «le libere donazioni, non i prelievi imposti per legge». Si tratterebbe, a quanto pare di capire, di defiscalizzare la filantropia dei miliardari. Meloni ha definito il fisco un «buon padre di famiglia» perché «deve chiedere il giusto: buon senso e lungimiranza senza sprecare le risorse». Il buon senso, criterio usato dai populisti per darsi ragione, sarebbe quello usato da uno Stato abilitante che mette «chi crea ricchezza», cioè le imprese, nelle «migliori condizioni per farlo». Lo Stato, disse Meloni nel suo discorso di insediamento, non crea ricchezza. Semmai deve usare una quota di questa ricchezza per «redistribuire le risorse ai più fragili». Il motto del governo è: «Non disturbare chi vuole fare». Una linea paternalista-liberista che considera il fisco una camicia di forza che «soffoca la società» e una leva al servizio del capitale la cui ricchezza sgocciolerà in basso, oliando la macchina pubblica.

Dopo la pausa elettorale delle regionali e in vista di quelle europee, Meloni ha arricchito la narrazione sul momento magico che attraverserebbe l’Italia grazie a lei e ha rilanciato la riforma fiscale contenuta nella legge delega che sta marciando velocemente alle camere, ha ricordato ieri il viceministro dell’Economia Maurizio Leo. «Una riforma attesa da 50 anni», ha detto Meloni. Già Berlusconi, con il distopico Tremonti, ripeteva questo ritornello. Si vorrebbe continuare l’opera lì dove non riuscì, portando le aliquote Irpef a tre, individuando le risorse dal taglio delle detrazioni e delle deduzioni fiscali. È una minestra riscaldata. Al tempo di Berlusconi le risorse non furono trovate, e non se ne fece niente.

«Meloni non dirà mai che le tasse sono bellissime. Ma in compenso la sua riforma fiscale è brutta – ha detto Antonio Misiani (Pd) -. Dall’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef alla deduzione maggiorata Ires sul costo del lavoro, finanziati solo per il 2024, senza un euro dal 2025 in avanti e la spada di Damocle di conti pubblici in rapido peggioramento». Secondo Cgil Cisl e Uil la riforma non rinuncia alla flat tax della Lega per le partite Iva abbienti e ha «una impostazione corporativa sulla base degli interessi del blocco sociale di riferimento», non è né equa né progressiva. Alle incertezze del finanziamento della riforma si aggiunge la pratica degli sconti, delle rateizzazioni decennali, delle rottamazioni, delle sanatorie, ne sono state calcolate 18 in 18 mesi di governo. L’ultimo intervento è stato lo stralcio dopo 5 anni delle cartelle non riscosse dall’Agenzia delle Entrate che ha un arretrato di oltre mille miliardi. «Non garantisce un recupero effettivo dei debiti né di impedire l’evasione fiscale – sostiene Vera Buonomo della Uil -. C’è il timore che questa misura possa trasformarsi in un incentivo per chi elude il fisco, danneggiando i contribuenti onesti. L’evasione dovrebbe essere contrastata, non giustificata».

Di lotta all’evasione fiscale ha parlato ieri Meloni esibendo il record di 24,7 miliardi: 4,5 miliardi in più rispetto al 2022. Si tratta della somma più alta di sempre: 19,6 miliardi derivano dalle ordinarie attività di controllo e 5,1 miliardi da misure straordinarie. 4,3 miliardi di queste provengono dalla rottamazione delle cartelle, 586 milioni dalla definizione delle liti pendenti e 245 milioni dalla «pace fiscale». È quest’ultimo capitolo che il governo vorrebbe incrementare, lasciando «in pace» alcune categorie elette di contribuenti ritenute più vicine. Per loro il fisco resta il più «amico» di sempre.

 

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