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“Così interrogai Matteo Messina Denaro” – #finsubito prestito personale immediato – Richiedi informazioni


‘Iddu’ era al volante, il 14 settembre 1992: Matteo Messina Denaro guidava, in auto con lui pronti a fare fuoco c’erano Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Affiancarono la Fiat Panda del poliziotto Calogero Germanà e spararono: una scena come quelle che si vedono nei film, ma in quello girato da Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, che è stato nelle sale negli ultimi 7 giorni, questa non c’è. Il film si ispira, senza trattarlo fedelmente (e per questo ha fatto anche discutere), al periodo di latitanza di Matteo Messina Denaro, dunque dal 1993 in poi. “Io non ero già più in servizio in Sicilia”, riannoda il filo dei ricordi Germanà, oggi pensionato, che nel 2004 fu poi nominato questore di Forlì-Cesena. Guardando ‘Iddu’, si è ritrovato di fronte sul grande schermo (“era tanto che non andavo al cinema”) il super latitante arrestato nel gennaio 2023 e morto circa un anno fa.

“L’attore che lo interpreta è bravissimo”, dice vedendo muoversi Elio Germano, con i caratteristici Ray Ban che contrassegnavano il capo della mafia nel Trapanese. Lui – in dialetto siciliano, appunto, ‘iddu’ – lo vide davvero anche dal vivo. Non tanto durante il fallito attentato, ma in un’occasione precedente: “Alla fine del 1988. Lo portammo in commissariato e gli facemmo alcune domande in merito a un omicidio, compresa la prova del cosiddetto ‘stub’, che serve a verificare se sulle mani è rimasta traccia di polvere da sparo. Non era stato lui. Certamente, però, l’organizzazione faceva capo a suo padre Francesco, di cui mi sono occupato più spesso”. È stato comunque un momento importante: “Allora non si era ancora capito il ruolo di Matteo Messina Denaro in Cosa Nostra. Era già, invece, uno degli uomini di spicco”. Fiuto da detective? Germanà frena subito: “Ogni investigatore lavora in squadra, e si basa sul lavoro di chi lo ha preceduto”. Com’era il boss quel giorno? “Infastidito. Gli rompevamo le scatole”.

Nel film la caccia dei servizi segreti ha in realtà il compito di ‘proteggere’ il super latitante. E su questo Germanà non ci sta: “Sarebbe come dire che lo Stato si rivolge contro se stesso, rinunciando alla propria missione di proteggere i più deboli”. Un concetto non solo teorico. “Non so come sia andata la ricerca: io non c’ero già più. Alcuni miei ex colleghi dei tempi della Sicilia non hanno voluto vedere il film. Posso dire che quando davo la caccia ai latitanti non ci sono mai state interferenze”. Germanà ha sempre immaginato che Messina Denaro fosse nascosto “nella sua terra”. Per 30 anni: non potrebbero esserci state protezioni inconfessabili? “Ma alla fine – sottolinea con orgoglio – l’abbiamo catturato”.

Il film contiene numerose libertà artistiche. “Alcune scene sono quasi shakespeariane”, commenta. Ciò che si vuole portare davanti alla macchina da presa è una riflessione più ampia. “A un certo punto, Messina Denaro chiede se aver ucciso per vendetta ha dato conforto a chi aveva subito un’ingiustizia. E questo coglie una funzione quasi provvidenziale che la mafia si attribuisce. Come se il Male fosse indispensabile al Bene. Come se i valori fossero tutti relativi…”. ll pensiero va alla vittima più ingiusta: “Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido. Il figlio e il fratello di ognuno di noi”.

La storia rappresenta anche un ex sindaco colluso (interpretato da Servillo): “Cos’è che unisce mafia e politica? Il potere. E il potere serve per fare ‘pìccioli’”, ovvero, in siciliano, i soldi. Questo è un rischio anche per un territorio come Forlì? Germanà ha scelto di rimanere a viverci. “Che la mafia abbia interessi economici anche in Emilia-Romagna, come altrove, è nell’ordine delle cose: viviamo in un mondo globalizzato e loro cercano di ripulire, re-investendoli, i proventi illeciti. Per farlo basta un ragioniere, che è facile nascondere. Ma il popolo romagnolo è estraneo alla criminalità organizzata”.

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