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Turchia, una fabbrica per il mondo #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


Sono notizie che fanno male. Il luglio scorso la casa automobilistica cinese Byd ha deciso di costruire uno stabilimento in Turchia con una capacità annua di 150 mila veicoli elettrici e ibridi che potrà dare lavoro fino a cinquemila persone. L’inizio della produzione è previsto per la fine del 2026. L’accordo è stato firmato a Istanbul dal presidente della Byd Wang Chuanfu e dal ministro turco della Tecnologia, Mehmet Fatih Kacir, alla presenza del presidente Recep Tayyip Erdogan. Poco più di tre mesi dopo, ai primi di ottobre, si è sparsa la voce che la Turchia starebbe concludendo le trattative con un’altra casa automobilistica cinese, la Chery, per un investimento nel Paese.

Nel frattempo l’Italia è all’affannosa ricerca di un produttore di auto che affianchi Stellantis nel tentativo di rianimare l’asfittico settore delle vetture nel nostro Paese. Dove nel 2023 sono stato fabbricati 880 mila veicoli tra auto e furgoni mentre la Turchia ne ha sfornati quasi il doppio: 1,46 milioni di cui 952 mila auto e 515 mila veicoli commerciali. Commentando l’accordo con Ankara, i cinesi di Byd hanno sottolineato «i vantaggi unici della Turchia, come il suo ecosistema tecnologico in via di sviluppo, una forte base di fornitori, una straordinaria posizione e una forza lavoro qualificata».

Nel Paese a cavallo tra Europa e Asia sono presenti da anni Stellantis, Ford, Mercedes, Renault, Toyota e Hyundai che ne fanno il tredicesimo produttore di veicoli al mondo. E per proteggere questo patrimonio, il governo ha imposto una tariffa del 40 per cento sulle importazioni di automobili dalla Cina. Un bastone severo unito, per chi vuole venire ad aprire stabilimenti, alla dolce carota di ampie agevolazioni fiscali, assegnazioni di terreni, stipendi bassi e facilità di licenziamento: lo stipendio medio netto annuo in Turchia è, in base ai dati Eurostat, di circa novemila euro, contro i 28 mila della media continentale (e i 24 mila dell’Italia). Inoltre, facendo parte dell’unione doganale, una società cinese che produce in loco può esportare in Europa le sue auto senza che queste vengano zavorrate da tariffe. Il risultato ottenuto è lo sbarco di Byd e probabilmente di Chery. «Abbiamo in programma un pacchetto di incentivi di 4,5 miliardi di dollari» ha annunciato il presidente turco «per aumentare la nostra capacità di produzione automobilistica, arrivando ad almeno un milione di auto elettriche all’anno». E ha precisato: «Abbiamo creato dieci fabbriche modello che guidano la trasformazione orientata all’efficienza della nostra industria. Porteremo questo numero a 14 aggiungendo quattro nuovi stabilimenti. Abbiamo aperto la strada alle aziende automobilistiche globali e ad altri produttori di veicoli su larga scala per dirigere i loro investimenti in veicoli elettrici in Turchia». In effetti, dietro l’immagine di un Paese afflitto da un’inflazione elevatissima (52 per cento) e dalla svalutazione della lira, guidato da un governo autocratico poco compiacente con l’Occidente e noto agli italiani soprattutto per le vacanze in caicco, la Turchia nasconde un tessuto industriale in campo motoristico di tutto rispetto che rappresenta un’opportunità ma anche una minaccia competitiva. Merito, tra gli altri, degli Agnelli che nel 1968 inaugurarono nella città di Bursa una fabbrica di automobili realizzata insieme al potentissimo gruppo locale Koç: negli anni Settanta vi si produceva la Fiat 124, oggi viene fabbricata la Egea (la nostra Tipo) e sempre qui Stellantis ha uno dei suoi centri di ricerca e sviluppo. A Bursa c’è anche l’impianto Oyak Renault, fondato nel 1969, che sforna non solo auto ma soprattutto motori.

Oltre alle auto e ai camion uno dei settori di punta nell’industria del Paese è quello dei macchinari che rappresentano il 10 per cento delle esportazioni, con Germania, Regno Unito, Francia e Italia come principali destinazioni. Un forte settore metalmeccanico richiede acciaio e per questo la Turchia è diventata il settimo produttore siderurgico al mondo. All’inizio del 2024 le acciaierie turche hanno addirittura superato la Germania, finora leader europeo. L’aumento della produzione di acciaio è stato facilitato dalla riduzione dei costi dell’energia, grazie ai buoni rapporti intrattenuti con la Russia in guerra con l’Ucraina nonostante l’appartenenza di Ankara alla Nato.

Molto forte nel tessile, dove è il sesto più grande fornitore globale, la Turchia sta tuttavia subendo le conseguenze della politica restrittiva adottata dal governo per frenare l’inflazione con alti tassi di interesse. Inoltre è stato raddoppiato il salario minimo e così per le aziende di abbigliamento come H&M e Inditex il Paese è sempre meno competitivo rispetto a Vietnam, India e Bangladesh: i costi di produzione complessivi sono quasi il 40 per cento più alti rispetto a quelli asiatici. Solo nei primi sette mesi del 2024 sono state quasi 15 mila le aziende del settore che hanno dichiarato fallimento, costrette a chiudere i battenti e mandare a casa i propri lavoratori. Anche per questo Ankara cerca di alzare il livello della sua economia puntando sulla tecnologia: ormai oltre un terzo delle esportazioni del settore manifatturiero sono prodotti tecnologici. In campo agroalimentare si sa che la Turchia è il primo produttore mondiale di nocciole (vedere anche articolo a pagina 32). Meno risaputo è che detiene la seconda posizione in Europa dopo l’Italia nella pasta, e il terzo al mondo dopo noi e gli Stati Uniti: la sua produzione è decuplicata negli ultimi dieci anni fino a superare i due milioni di tonnellate, di cui 1,4 destinati all’export. Il Paese è anche il numero uno nel Mediterraneo nell’uva da tavola, con 2,1 milioni di tonnellate, più del doppio dell’Italia.

Complessivamente l’economia turca va bene: il Prodotto interno lordo è aumentato in media del 5,4 per cento all’anno tra il 2002 e il 2022, con un reddito pro capite più che raddoppiato nello stesso periodo, mentre il debito pubblico è fermo al 30 per cento del Pil. Per quest’anno si prevede una crescita dell’economia superiore al 3 per cento (l’Italia viaggia sotto l’1 per cento). Forse la caratteristica più importante del Paese negli ultimi due decenni è stata la sua straordinaria resistenza: è stata capace di stupire gli economisti e di smentire le cassandre che alla fine del 2018 dubitavano della capacità della Turchia di riuscire a stabilizzare la sua economia. Invece le cose sono andate meglio di quanto ci si potesse aspettare, diventando sempre di più un centro di produzione attraente per le aziende che cercano di trovare alternative più sicure e più vicine della Cina.Nell’ultima classifica della Banca Mondiale delle nazioni dove è più facile fare affari, risalente al 2020, il Paese è al 33° posto mentre l’Italia al 58°. Oltre alla semplicità nell’avviare una produzione in loco e alla vicinanza all’Europa, tra i vantaggi di operare in Turchia c’è la buona forza lavoro, grazie a una popolazione giovane ampia e ben preparata: la nazione conta su 87 milioni di abitanti con un’età media di circa 33 anni e ogni anno si laureano circa 900 mila studenti provenienti da più di 200 università.

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Un ambiente favorevole che negli anni ha calamitato oltre mille aziende italiane nel Paese, dalle Assicurazioni Generali alla Barilla, dalla Benetton alla Danieli, dalla Merloni alla Recordati. E sul Bosforo l’impresa di costruzioni Astaldi ha realizzato il ponte sospeso più largo al mondo. Il governo di Erdogan, come sempre, ha grandi ambizioni. La sua visione strategico-economica per i prossimi anni è contenuta nel dodicesimo «Piano di sviluppo pluriennale (2024-2028)», pensato su cinque assi: crescita stabile ed economia forte; competitività attraverso la trasformazione green e digitale; formazione e sostegno alle famiglie; prevenzione dei disastri naturali; governance democratica. In base a tale programma, da qui al 2028 il Pil dovrà crescere del 5 per cento all’anno, la disoccupazione calare al 7,5 per cento (ora è al 9) e l’inflazione crollare al 4,7 per cento. Obiettivi difficili, ma se Ankara riuscirà a raggiungerli non ci resterà che rivedere e correggere il celebre detto, esclamando: «Mamma, ’sti turchi!».

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